Generazioni mutanti

Ripubblichiamo il seguente testo uscito sul N.33 (febbraio-aprile 2016) di Voce libertaria dopo gli attacchi al Bataclan e allo Stade de France a Parigi.

“… e ci incastriamo l’una nell’altra, nella nostra incomprensione reciproca, dobbiamo adattarci, dice mamma con quello sguardo che non voglio più vedere, alla merda? Urlo, e dove comincia la resistenza?” (Come l’aria; Melinda Nadj Abonji)

“C’è un ordine che premia i più ubbidienti”, diceva cousin Jerry, “ma noi siamo stati chiamati a partecipare a un’altra festa.” (Bastogne; Enrico Brizzi, Maurizio Manfredi)

È stata definita Génération Bataclan.
Così titolava in prima pagina il quotidiano francese Libération il giorno dopo la mattanza parigina di novembre. Un prodotto spettacolare, sapientemente plasmato negli ultimi 40 anni di quella che Pasolini he definito “Mutazione Antropologica”. Una generazione che ha preso forma dopo la fine delle grandi mobilitazione altermondialiste di fine/inizio secolo, diluendosi poi nella movida degli anni post-duemila: trendy, maggioritariamente bianca, aperta al mondo, amante dei social media e degli apèro in terrazza. Una generazione nata precaria, cresciuta con l’imperativo del “godimento inteso come relazione di puro consumo con le persone o le cose e che ha sacrificato al piacere i vincoli e le relazioni”.
Una generazione che si narra in prima persona singolare e che ha saputo coniugare la pratica delle libertà private con la possibilità infinita e inderogabile di consumare e di spostarsi. Muoversi dove si vuole, quando si vuole, a prezzi irrisori e possibilità d’accumulo di qualsiasi tipo di merce e di sostanza. Di fatto una nicchia privilegiata, con la coscienza addormentata, rinchiusa in un sogno e saldamente protetta da muri, manganelli e gas lacrimogeni.

Un sogno dal quale non vorrebbe risvegliarsi. O anche parte del sogno al quale, secondo una semplice logica della ricerca del benessere, aspirano i tant* che ne sono esclusi. Quelli che agitano i sonni di impauriti cittadini che affidano i propri timori alle new destre lepen-ghiste. Le rotte dei migranti in fuga come schegge impazzite che fragilizzano il monopoly di conquista globale. La caccia continua inesorabile, ma le cifre ci parlano di un’altra realtà: che quasi una persona su 7 nel mondo appartiene per diverse ragioni alla sfera “migrante”, che una persona su 133 è oggi un profugo, un richiedente l’asilo o uno sfollato e che nel 2015, 60 milioni di persone sono fuggite dalla propria terra. Un milione quelle arrivate in Europa, la maggior parte da guerre dove le responsabilità dell’Occidente sono evidenti. E mentre ci si ingegna a creare nuove categorie discriminatorie con richiesta di certificazione del migrante economico o del rifugiato perseguitato, lo spettacolare processo di securizzazione di vite e territori subisce un’accelerazione vertiginosa. L’idiozia dilaga, la visione del muro imperversa e le sentinelle in baionetta e olio di ricino proliferano.

Senonché, all’improvviso, frutto del fracasso di una civiltà in decadenza, della sua visione del mondo arrogante e supponente e del fallimento di tutte le misure prese per “difenderla”, ci si accorge che nei luoghi in esubero del mondo occidentale, esistono ancora generazioni disposte a morire e a uccidere per una causa.

Senza preavviso, il rumore aumenta, le ossa si rompono, gli argini scavalcati.
E il decantato stile di vita si frantuma contro la sua stessa genesi.

Ci si accorge allora della guerra. La si sente vibrare non più nel nuovo televisore al plasma ma proprio sotto casa, in strada, in discoteca, allo stadio. Che c’entriamo noi, vittime innocenti, con questa guerra che non ci appartiene? Noi, che abbiamo sostituito quel Dio invisibile e fuori moda degli infedeli, con il paradiso in terra della società dei consumi?

Un sibilo fastidioso, ripetitivo, rubinetto gocciolante nel cuore del sogno. Il passaggio dal visibile all’invisibile. La proiezione di corpi reietti. Scarti in esubero. Viaggiatori di sogni scuri. Piedi appoggiati a muri instabili.

Siamo in guerra! E nelle ex (?) colonie dell’occidente, nei ghetti periferici del banchetto del consumo, gli infedeli si moltiplicano, come tenie parassitarie. Abituati da générations a vivere come quotidianità la dottrina dell’invasione, sperimentatori nei loro quartieri del trend securitario e avvezzi al sopruso, all’offesa, al sangue, all’imposizione, al terrore. Abituati agli ospedali esplosi, ai caffè distrutti, alle sales de fetes sgomberate, alle piazze chiuse, alle case distrutte, ai barconi affondati, alle materie prime espropriate. Quanti i danni collaterali delle invasioni dell’occidente? Algeri, Santiago, Gaza, Kinshasa, Kabul, Baghdad, Managua, Hanoi, Bamako, Ouagadougou, …

A che indirizzo risiede la guerra? I nuovi dei dell’Apocalisse si muovono sugli assi Saint Denis-Istanbul-Aleppo, Molenbeek-Mosul, abbandonando gli stanchi muri di periferia per raggiungere nuovi Eldoradi di protagonismo, attirati dalla stessa medaglia del luccichio tecnologico mediatico che già a suo tempo il sistema riprodusse dalle prime visionarie e riuscite esperienze dei mediacenter alternativi.

Una mutazione antropologica, dicevamo. Quella avvenuta sotto i nostri occhi, i cui tempi sono stati scanditi, anche e soprattutto, dalla riuscita invenzione della teledipendenza: era il 13 giugno 1981 quando, la prima diretta della televisione italiana (RAI), incollava 50 milioni di telespettatori alle immagini dei tentativi di recupero del bambino Alfredino, “caduto” nel pozzo artesiano
Vedasi il romanzo Dies Irae, Giuseppe Genna di Vermicino. Fatto che avveniva “casualmente” poco dopo che il Consiglio dei Ministri, il 21 maggio, rendeva pubblica la lista dei 962 aderenti della loggia massonica P2 e proprio il giorno stesso in cui tal Berlusconi Silvio, tessera P2 nro 625, pubblicizzava, sulle pagine del Corriere della Sera, la vendita di immobili per i nuovi ricchi nella sua Milano ricostruita.
Trentacinque anni dopo, simile utilizzo mediatico delle immagini, continua a definire e a deformare i confini tra il bene e il male passando da quelle degli infedeli freddati alle spalle con le magliette dei calciatori Ronaldo e Messi, a quelle di un altro bimbo, Aylan, ennesimo corpo senza vita su una spiaggia del mediterraneo.

Una guerra che si plasma a indirizzi privilegiati, dove i difensori della fede – pubblicitari, designer, giornalisti, stilisti, maestri, architetti, chefs, economisti, guru e bimbi minchia d’ogni sorta – fanno rimbalzare sul grande schermo le loro preghiere scintillanti. Dare nomi e volti ai colpevoli. Ai responsabili della new colonizzazione di menti e territori – quella che inizia nelle scuole in tenera età – dove l’individuo aperto, tollerante, sensibile, ecologico, democratico e bio trionfa. Dove la génération si riflette in una normalità illusoria che stagna nei bio-imballaggi delle grandi catene di produzione, reciclandosi nei nuovi quartieri bohèmiens delle capitali europee. Non più Milano3 ma l’esproprio delle insane mescolanze “proletarie” di mondi migranti. A prova di igiene e accanto a muri espressamente concessi dall’autorità per arredare con decoro il grigiore urbano imperante, avviene il processo di gentrificazione delle grandi città dalle quali i poveri sono esclusi. Anzi, espulsi verso quelle zone da sempre atipiche delle metropoli occidentali: le banlieues (lieue = luogo; ban = banner, mandar via) dove sono stati parcheggiati i residui non più desiderabili (sfruttabili…) del processo delle colonie e delle migrazioni. Periferie che ridiventano focolai da cui difendersi, che passano da centro del disagio in rivolta, a ghetti di reclutamento fondamentalista, dove, come descriveva una giornalista della radio della Svizzera italiana, è quasi impossibile trovare un vero francese (e per francese presumo intendesse un uomo, bianco, baffuto e col cappello, mangiatore di porcello e bevitore di vino rosso…). Eh sì, quella popolazione, fatta venire oltre 60 anni fa come forza lavoro in métropole e da sempre stigmatizzata e oltraggiata da continue leggi discriminatorie, da controlli di polizia che troppo spesso sfociano in abusi e brutalità se non addirittura in omicidi e che vanta la percentuale di disoccupazione e d’inaccesso ai servizi più alti in Francia, non può essere definita francese. Anche se poi la si tratta da incivile perchè si astiene dal teatrino di voto, come capitato nelle recenti elezioni francesi nel dipartimento della Seine Saint Denis (93), dove il 63% delle già relativamente poche persone che ne hanno diritto non ha votato. Nè a destra – nazional fascista lepenista o sarkoziana che sia – nè a sinistra – quella della promessa “securizzante” Valls o di quel che resta del retaggio comunista.
Perchè oggi rimanere territorio di discontinuità e rigettare le morali dei nuovi opinion maker mondiali non è tollerato. E piuttosto che analizzare e intervenire sulle cause della profonda frattura di una generazione costruita sulle petite combine, sui traffici informali, cresciuta con la consapevolezza di un destino a orizzonte limitato, rende di più gettare tutti nel calderone dei foreign fighters. Assumere infatti che la concretezza di un protagonismo reale, qui e ora, nelle terre da sempre martoriate dal giogo coloniale, può diventare un metodo di ribellione a un mondo imposto e subito, sarebbe un po’ come ammettere il fallimento della nostra società.

Della consapevolezza della guerra è un mondo destinato a cambiare. Se dopo l’attacco a Charlie Hebdo la Francia e il mondo manifestavano a braccetto ammonendo che per nulla al mondo il nostro stile di vita cambierà, dopo l’attacco al centro dell’impero la risposta è stravolta. Niente più manifestazioni, proclamazione dello stato d’emergenza permanente e la diffusione del sospetto. Bisogna prepararsi poichè sarà una lunga guerra. Gli spazi si chiudono, si riducono. Anche quelli della generazione Bataclan che forse si accorgerà che la sua funzionalità è proprio quella di non dare fastidio e di restare tranquilla al Bataclan, al riparo da gas lacrimogeni e manganelli. Eccolo lì il frutto della difesa del nostro stile di vita: perquisizione senza mandato e saccheggio di migliaia di abitazioni nelle zone periferiche e nei centri di lotta sociale (le Zad, Zone A Defendre, le occupazioni, le comuni, le cooperative), arresti preventivi, imposizioni di domicilio coatto, fermi, chiusura di luoghi aggregativi e di culto, limitazioni collettive e individuali.

Fin dove si spingerà tale processo di securizzazione? E soprattutto in questa complessità di stravolgimenti globali che posto toccherà a noi – donne e uomini in conflitto – prodotti del mondo occidentale, ma in perenne ricerca di una rivoluzione possibile? Riuscire innanzitutto ad assumere che, se viste dall’esterno e con lo sguardo di un osservatore distante o di un nemico, le società dove vige la forma di vita occidentale sembrano dei blocchi compatti
e che coloro che le attaccano non fanno nessuna differenza tra “buoni e cattivi”. Per poi chiarirci che non abbiamo nessuno stile di vita da difendere, anzi è proprio la sua riproduzione l’origine della guerra. E, come mostrato nel film del regista ungherese Kornél Mundruczò “White God, sinfonia per Hagel”, dove una massa di cani randagi esclusa perchè non di razza ungherese, si ribella e attacca l’ordine razzista e benpensante, appare sempre più chiaro che gli attori di possibili cambiamenti, sommosse o rivoluzioni saranno gli esclusi, ossia le maree umane che si stanno spostando senza sosta, che scavalcheranno ostacoli, muri e frontiere e che non per forza aspirano ai nostri concetti di cambio ma vorrebbero solamente essere partecipi del lauto banchetto. Riuscire allora a distruggere il mito del consumo, a smontare l’idea di sviluppo infinito, unita alla capacità di descolonizzare le nostre teste, di capire e di inserirci nei processi di mutazione e di spostamenti, di accoglierli, di facilitarli, abbattendo il paradigma oriente-occidente, fedele-infedele, sarà forse un primo passo in grado di pensare alla costruzione di territori e generazioni altre, dove la guerra smetta di essere elemento di distruzione tra i popoli.

afroditea, inverno 2015-2016.