La Svizzera e le persone eritree richiedenti l’asilo: rifiuto, rigetto e precarizzazione

Fonte: renversé.ch

Riportiamo un testo pubblicato in occasione di una manifestazione lanciata dalle comunità eritree in Svizzera contro la dittatura ed i rapporti diplomatici tra Berna ed il regime di Asmara, svoltasi il 10 novembre a Ginevra.

La Svizzera è il primo Stato europeo ad esigere che le/gli Eritree in esilio tornino nel loro paese di origine. Uno Stato dove il servizio militare non solo ha una durata indeterminata ma è anche sinonimo di schiavismo. Uno Stato dai cui confini è fuggito un quarto della popolazione. Quando sopravvivono alla traversata del deserto e a tutti i suoi pericoli, quando muoiono annegate nel Mediterraneo, quando riescono a fuggire al controllo militarizzato delle frontiere dell’Unione Europea1, quando finalmente raggiungono il territorio svizzero, le persone in esilio si trovano confrontate all’istituzione della diffidenza, la SEM (Segreteria di Stato alla Migrazione), che cerca con ogni mezzo di negare le ragioni che potrebbero permettere di ottenere accoglienza in Svizzera.

E ancora! Un gran numero di queste persone non vengono nemmeno ascoltate, in virtù degli accordi di Dublino, visto che hanno avuto la sfortuna di dover lasciare “le loro impronte” in un paese dell’Unione europea prima di arrivare in Svizzera.

Da diversi anni, la comunità eritrea rappresenta una parte importante delle persone richiedenti l’asilo in Svizzera. Sbarazzarsi di queste persone è una delle principali ossessioni della politica migratoria della Confederazione. Già nel 2012, le revisione della legge prendeva di mira direttamente le persone eritree rifugiate escludendo la diserzione come motivo che permetteva di accedere all’asilo.

Dopo 11 anni di interruzione, la DSC (Direzione dello Sviluppo e della Cooperazione), ha deciso di riprendere le sue attività di cooperazione con il regime eritreo, in particolare attraverso un’associazione il cui il presidente, Toni Locher, è sia console onorario d’Eritrea in Svizzera, sia amico del presidente eritreo al potere dal 1993, Isaias Afwerki. Questo ravvicinamento avviene sotto la pressione del parlamento, con l’esigenza di “arginare il flusso migratorio” in provenienza da questo paese. Il DSC sta progettando un centro di formazione professionale in Eritrea, al fine di incitare i/le giovani eritree/i a lavorare sul posto invece di emigrare… mentre la maggior parte di esse/i fuggono giustappunto i lavori forzati?! Ancora una volta, possiamo osservare il legame nauseabondo tra uno pseudo “aiuto allo sviluppo” e una gestione esternalizzata delle frontiere.

Oggi, la Svizzera è il primo Stato europeo ad esigere dalle persone eritree in esilio che ritornino nel loro paese d’origine. E questo mentre molteplici rapporti dell’ONU e di ONG come Amnesty International descrivono il paese come una vera e propria prigione a cielo aperto. Uno Stato dove il servizio militare non solo ha una durata indeterminata ma è anche sinonimo di schiavismo. Uno Stato dai cui confini è fuggito un quarto della popolazione. Uno Stato che opprime i/le proprie cittadine non solo all’interno delle sue frontiere ma anche nella diaspora, attraverso un sistema di intimidazioni e di minacce. Mentre la polizia federale ha sporto denuncia contro un presunto racket organizzato dalle autorità eritree nei confronti della sua diaspora in Svizzera, il Ministero Pubblico della Confederazione ha archiviato il caso. La diplomazia era già passata di lì?

Le autorità svizzere proseguono consapevolmente le loro manovre con questa autocrazia, per trovare un accordo che permetta loro un giorno di organizzare dei voli di espulsione e nel frattempo di discriminare e di precarizzare tutta una parte della popolazione negandole i propri diritti. In effetti, se nel recente passato numerose eritree/i venivano riconosciute/i come rifugiate/i e ottenevano un permesso B, oggi, al “meglio”, ottengono dei permessi provvisori che sono dei veri e propri ostacoli all’integrazione (permesso F), al peggio, la loro richiesta d’asilo viene rifiutata e si trovano allora in uno stato di precarietà totale (aiuto d’urgenza) e alla mercè della macchina repressiva che lo Stato riserva alle/ai richiedenti l’asilo la cui richiesta d’asilo è stata negata.

Questo tipo di processo di normalizzazione delle relazioni tra la Svizzera e numerosi paesi d’origine delle persone in esilio, attraverso trattative politiche, protezione di interessi economici e ricatti per “aiuto allo sviluppo”, è una pratica frequente che permette in seguito alle autorità elvetiche di screditare collettivamente la parola delle persone che fuggono da paesi considerati “sicuri”. Questo non assomiglia forse all’infame “tratta di esseri umani” di cui i politici e i media ci parlano frequentemente quando affrontano la cosiddetta “crisi migratoria”?

Di fronte a queste oscure manovre delle autorità svizzere e all’ennesimo tentativo di impedire a delle persone di vivere sul territorio che sembra loro il più adatto per la propria libertà, prosegueremo la lotta per la libertà di movimento per tutte e tutti!

Collettivo Sans retour, 7 novembre 2017.

Fonte: https://renverse.co/La-Suisse-et-les-Erythreen-ne-s-deni-rejet-et-precarisation-1293

Testo di chiamata alla manifestazione del 10 novembre (in francese e tedesco).

 

1Frontex (ex Agenzia europea per la gestione della cooperazione operativa alle frontiere esterne, oggi Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera), alla quale la Svizzera partecipa attivamente, come tutti i membri degli accordi di Schengen.