Riflessioni in forma di chiamata alla mobilitazione, in vista del corteo del 14 settembre a Lugano: RIPRENDIAMOCI LE CITTÀ!

CITTÀ SOTTO VETRO.

Ovvero: scegliere di frantumare il presente, per poter liberare il futuro.

la denuncia di ciò che al presente viene chiamato ragione  è il più grande servigio che la ragione possa prestare

Max Horkheimer

Pare che dalla sala da pranzo del centro per richiedenti l’asilo di Cadro si veda un bel bosco.

E’ il bosco, ombreggiato e lussureggiante al di là del fiume Cassarate, dove il percorso vita che sale dal piano della Stampa arriva nei pressi del canile, affiancando un campo per persone migranti. Persone costrette ad “abitare” la parte piu’ discosta della “grande Lugano”, un quartiere di rifugi per animali, discariche di inerti, fabbriche e carceri.

Pare che da dentro alla sala da pranzo del centro per richiedenti l’asilo di Cadro, sia impossibile osservare il bosco senza vedere il vetro che lo separa.

E’ il vetro che precede la recinzione, la videosorveglianza, la torretta panottica, la guardia in divisa.

Il quartiere di galere, canili e rifiuti.

E’ il doppio vetro della separazione e del controllo, che si vorrebbe trasparente, indolente, trascurabile.

A negare l’abbaglio, a mostrare lo spessore del vetro che separa il campo dal bosco, sono la prospettiva, o la luce con le quali si impara ad osservare le cose: magari con gli occhi veloci di chi non si è ancora rassegnato a rinunciare alla propria dignità di persona umana. Lo sguardo abissale dei traumi vissuti, che dilata la profondità di chi deve fare i conti con la necessità di apprendere in fretta: le forme urbane e le loro disposizioni, le aree separate, i segnali di comportamento, la burocrazia, le linee di demarcazione, alla ricerca di paesaggi da smontare, per scorgere probabili vie di fuga, incontenibili sentieri di libertà.

Viviamo attraversando rapidamente un tempo e una città nei quali le immagini doppie e separate sembrano essere copia-incollate a una velocità accelerata. Una velocità e un’ipocrisia tali da nascondere i vetri, i muri, le recinzioni, sempre più opache e posticce, tra le magnifiche e progressive sorti del capitalismo globale – con le sue aspiranti capitali -, e lo sfruttamento, l’estrattivismo, il disprezzo.

L’infotainment locale insiste periodicamente sulle vocazioni urbanistiche della grande Lugano, eletta a modello di quella città Ticino, che la ragion di stato pone al centro del proprio sviluppo.

Istituti di robotica e intelligenza artificiale, centri di calcolo e banche di server informatici, grandi opere di comunicazione e grandi progetti urbanistici, uffici di società bucalettere o fiduciarie esperte nel furto e l’evasione fiscale, uffici di aziende fantasma, università e centri clinici d’élite, strutture per lo sport business e l’intrattenimento, industria turistica rampante e piazza finanziaria in patetico declino, sono le principali cartoline di questa grande e scintillante Lugano.

Sono immagini che occupano costantemente la scena della propaganda mediatica, senza mai davvero essere poste di fronte al vetro che le separa.

Dai quartieri fatti di uffici o finti capannoni per la logistica, sempre più securizzati e deserti.

Dall’uniformazione e dall’appiattimento culturale, esistenziale, identitario, di genere, di classe e di appartenenza.

Dalla rimozione forzata di ogni forma di relazionalità sociale non improntata al consumo.

Dai cosiddetti “incidenti” nei cantieri della speculazione immobiliare.

Dal rifiuto, dall’espulsione e dalla segregazione di tutte le persone non corrispondenti agli standard di vita cittadina.

Dal pensiero razzista divenuto azione di governo e arredo urbano.

Dalla violenza patriarcale e sessista elevata a pensiero comune.

Dalla devastazione ecologica della città globale spacciata per modello di sostenibilità.

Dalla inquietante e spavalda agibilità cittadina per i think-thank suprematisti e neofascisti, camuffata per cultura o informazione indipendente.

Denunciare e contrastare questo presente imposto, saperlo smascherare all’interno di quel modello “città-ticino” che si sta costruendo, significa preparare un terreno possibile di riscatto e di vita degna per ognun@.

Frantumare un presente sempre meno sopportabile, sottoporlo a critica radicale, individuale o collettiva, per cominciare a liberare gli orizzonti del possibile, vuol dire anche ricominciare a riconoscersi come abitanti di quelle città invisibili, quelle popolazioni negate, ghettizzate, rinchiuse, espulse, che stanno in basso e che non accettano la retorica del pensiero unico dominante.

Riprendersi le città, i boschi, i sentieri, i porti o i passi alpini, come gesti di conflitto e di visibilizzazione di qualcosa che è già altro! Altro dalle confortevoli stanze dell’indifferenza o del cinismo complice con le guerre, le devastazioni ambientali, il razzismo, il sessismo.

Il prossimo 14 settembre ci prenderemo le strade di Lugano, scenderemo in quelle strade e in quei quartieri che la politica dei grandi interventi urbani prevede di trasformare massicciamente. Non lo faremo per una rivendicazione, una protesta o una lotta specifica, ma per cento, mille possibili convergenze conflittuali, dalla parte delle città che non accettano di essere ridotte a spazio uniforme e indistinto di mercificazione e controllo.

NUOVI POLI URBANI: BUCHI CON IL NULLA INTORNO!

La propaganda della ragione urbana di chi sta in alto insiste da tempo sui cosiddetti “poli di sviluppo strategico”: polo Turistico Congressuale (PTC) di Campo Marzio nord, polo Sportivo e per gli Eventi (PSE), inserito nel “nuovo quartiere” di Cornaredo, i poli accademici sviluppati attorno ai campus USI e SUPSI di Cassarate, Besso e Manno, nonché il polo alptransit della stazione FFS che, oltre a Besso, coinvolgerà anche il Comune di Massagno.

Una “Lugano del futuro” fatta di poli, in cui saranno investiti 900 milioni di franchi nei prossimi 15 anni, in grandi opere di riorganizzazione urbanistica;

Con tutti questi “polo”, varrebbe forse la pena di riflettere sui famigerati buchi con la menta intorno, ovvero: di quale futuro si parla? E a chi apparterrà questo tipo di futuro, allestito attorno alla città-Ticino e ai suoi formidabili poli? Quali sono le città che non rientrano e non rientreranno nei piani degli amministratori governamentali del cantone di frontiera, sacro baluardo patrio contro le invasioni di massa, spazio di confine per regolare la compressione dei costi di una de-composta e frantumata manodopera lavoratrice, per meglio normare la riproduzione incessante di capitali in immobili, nella finanza o nell’industria turistica?

Insomma, per chi la menta fresca e per chi i buchi neri1, del presente e del futuro di questa città, di questo centro del potere?

Peraltro, non ci è dato sapere se il riferimento esplicito alla terminologia dei “poli di sviluppo strategico”, da parte di pianificatori urbani, padroni e governanti, sia un uso disinvolto e consapevole del fatto che, guarda caso, siamo storicamente nel pieno di un processo globale di polarizzazione della ricchezza senza precedenti e di conseguenti “crisi”, legate alla sua concentrazione esponenziale e sempre più insostenibile.

Quello che sappiano che recentemente, uno dei principali artefici di questi grandi progetti si è silenziosamente dimesso. Come spesso avviene in questa decorosa cittadella pudica, senza clamori ma soprattutto senza spiegazioni o giustificazioni politiche.

Tuttavia, non ci risulta nemmeno che questo tipo di domande (domande che operano già, nel momento stesso in cui compaiono sulla scena delle esistenze critiche, singolari o collettive, prefigurando la rottura, la crepa nel vetro, il passaggio di aria…) venga posto con la dovuta insistenza, con la dovuta urgenza e nemmeno, ad ora, con la necessaria capacità di mantenere assieme tutto il quadro nel quale è allestita questa logica.

Dal nostro punto di vista, ovvero dal punto di vista di chi da più di venti anni si ostina a contrastare la ragione urbana neoliberale e le sue manifestazioni più stridenti, risulta piuttosto evidente, anche alla luce delle recenti minacce di sgombero, che la Grande Lugano, in quanto città pensata per “coloro che stanno in alto” rappresenti un modello esemplare e sempre più perfezionato di tale ragione. Con i suoi gruppi di interesse e i suoi referenti politici, essa rappresenta un’idea di governamentalità urbana formalmente democratica (con il 40% della popolazione priva di diritti politici, in quanto straniera residente, con la concentrazione di tutti i mezzi di informazione locali nelle mani dei gruppi di interesse economico, con l’azzeramento delle autonomie comunali, in ragione delle grandi aggregazioni), ipertrofica, segregazionista, patriarcale (come ogni forma di organizzazione sociale che promana dall’alto, dei capi e dei capetti), energivora, antiecologica e globalmente complice delle peggiori nefandezze a livello mondiale; un campione di città-Ticino in grado di concentrare a un tempo, la vocazione espansiva del capitale speculativo immobiliare e, di conseguenza, la necessità di avere forme di controllo e repressione preventiva, su un territorio sempre più attraversato da ingiustizie socio-spaziali e problemi crescenti di sostenibilità sociale, economica, ambientale.

Le vicissitudini elettorali degli ultimi anni, dimostrano come questo cantone meridionale sia stato un ottimo esempio di sperimentazione per quel connubio, apparentemente inconciliabile, tra destre sovraniste-neofasciste e gruppi di interesse del neoliberismo economico e finanziario. A partire dall’osservazione della nostra città, ci pare sempre più evidente che la retorica xenofoba e securitaria di leghisti e comprimari in governo cantonale, o nelle istituzioni cittadine, sia perfettamente funzionale al mantenimento di modelli insediativi, funzionali alla concentrazione del grande capitale finanziario. Attraverso la consueta retorica contro gli stranieri, i frontalieri, gli asilanti e i finiti rifugiati, il pupazzo politico che parla in dialetto e pubblica post sui social, crea deliberatamente il falso nemico, la minaccia esterna (ma, che all’occorrenza diventa interna, se si tratta di compagni con la K, socialisti con la $ o immigrazionisti spalanca frontiere), permettendo ai responsabili diretti della devastazione del pianeta di rimanere indisturbati.

Proprio la possibilità di poter risiedere e stabilirsi assieme ai propri capitali indisturbatamente, al riparo da quelle fastidiose disposizioni fiscali previste dagli stati, rappresenta da sempre la grande attrattiva della città sul Ceresio per i grandi capitalisti di tutto il pianeta.

Investendo sulla fabbricazione di paure e intolleranze, il fascio-leghismo giustifica incessantemente le forme sempre più avanzate, preventive e liberticide del controllo sociale, producendo città desertificate e pertanto insicure.

DESERTIFICAZIONE SOCIALE E SICUREZZA

Da sempre, la forma città rappresenta il centro, la residenza del potere, la sede del governo di un determinato territorio e il suo conseguente “braccio” esecutivo. Con la progressiva de-strutturazione del territorio in spazio di consumo, la funzione della città come governo diventa quella della governamentalità del controllo e della “sicurezza” diffusa. Sicurezza è la parola magica in grado di giustificare ogni possibile riorganizzazione urbana, anche quelle più deliberatamente segregazioniste.

L’ideale (o l’ideologico) sarebbe nientemeno di ciò che lo stato neoliberale, modello egemone di questa e di molte altre città occidentali, persegue da oltre mezzo secolo: una popolazione senza società e senza legami sociali, individualizzata e placidamente disposta attorno a prevedibili esigenze di consumo, distribuita tra centri e periferie indistinguibili, se non attraverso il valore dei terreni e i conseguenti livelli di securizzazione. Un territorio sempre più urbanizzato, reificato, monitorato, misurato, presidiato, costellato da non luoghi come le “zone a destinazione specifica”: commerciali, pedonali, private, rosse, verdi, invalicabili, videosorvegliate, degradate, ri-qualificabili, di abbattimento, ecc. Un territorio attraversato e non agito, da cittadini-sentinella, consumatori a-sociali, in relazione tra loro unicamente attraverso l’interfaccia del mercato e sotto sorveglianza permanente.

In questo modo sentiamo sempre più spesso parlare di “miracolose” e “indispensabili” macchine di sorveglianza impersonale: sistemi di telecamere fisse, oppure mobili (droni), con capacità di registrazione dei dati e risoluzioni grafiche sempre maggiori. Indipendentemente da tutto ciò che comporta nell’ambito della sicurezza che conta, o che dovrebbe contare: quella della libertà di espressione e di protezione dall’arbitrio dello stato, dai capricci, dalle ritorsioni e dalla repressione di ogni forma di dissenso da parte delle autorità di turno.

Chi dispone la riproduzione incessante di questa “città del futuro”, sia essa in veste di smart city o di grande Lugano, propinandola continuamente nel discorso pubblico, attraverso ristrette categorie di attori, tanto vaghe quanto assolute, come i fantomatici “settore pubblico” e “settore privato”, non può che “stare in alto”. Allo stesso livello dei grandi CdA di multinazionali o stati nazional-aziendali, dove la dicotomia pubblico-privato serve solo a mascherare o a meglio gestire reciproci interessi e sfere di influenza.

Di questo passo, la città più sicura della svizzera non è altro che un paesotto decorosamente desertificato, in cui mangiare un kebap dopo mezzanotte è già un comportamento fortemente sospetto, magari valido per un “normale controllo di polizia”; in cui si inaugurano grandi opere come il LAC e si lasciano morire i piccoli spazi di creatività artistica; in cui il collegamento alptransit permetterà di essere a Bellinzona in 15 minuti ma non esiste già più la prossimità di quartiere; in cui si riorganizzano grandi quartieri commerciali e ci si lagna al contempo per la distruzione del vecchio tessuto urbano legato all’artigianato e al commercio al dettaglio; in cui la comunicazione 5G potrà attrarre nuove aziende e imprese sempre più performanti, con buona pace della nostra salute post-radioattiva. In cui uno sbirro ogni 4 abitanti non basta, c’è bisogno che ogni persona (con diritto di cittadinanza o aspirazione ad averlo) faccia anche il proprio dovere di sentinella. Migliaia di sentinelle a guardia di un comodo, decoroso, deserto.

GRANDE LUGANO E GRANDI OPERE

I “grandi” interventi di espansione urbana a Lugano, non fanno altro che rincorrere, naturalizzandola, la territorialità delle “grandi opere”, come Alptransit.

Riorganizzare uno spazio urbano all’altezza della grandiosità delle opere del capitalismo neoliberista, significa in primo luogo garantire flussi sempre più capaci e sempre più veloci, in grado di trasportare incessantemente merci, merci-informazioni o persone ridotte a comportamenti mercificati. Significa far aderire l’intero territorio a un solo modello di sviluppo possibile, un unico ininterrotto spazio di mercato. Uno spazio unificato per un pensiero unico: fino alla terrificante smania di dover essere all’altezza di predire il futuro, per garantirsi quote crescenti di profitto.

Come possiamo considerare altrimenti l’irresistibile frontiera del capitalismo del controllo? Il lucroso mercato delle tecnologie predittive (in grado cioè, di determinare e conoscere in anticipo i bisogni di una cittadinanza sempre più ridotta a massa di consumo) proprio a Lugano e in Svizzera sembra trovare ampio spazio di applicazione, copiosi investimenti di capitale e un’estesa connivenza politica.

Assistiamo sempre più frequentemente ad un’una riorganizzazione “contratta”, “accorciata” di territori urbani e non urbani, più o meno vasti, anche molto distanti tra loro. Il grande intervento urbano contemporaneo, sembra debba essere sempre nella condizione di garantire – per restare in tema di “grandezza”-, il flusso di grandi aggregati di informazioni (big data), la loro raccolta, il loro trasporto, la loro veicolazione e decodificazione, mediante grandi tecnologie di controllo e grandi opere di comunicazione. Quando, ad esempio, sentiamo parlare di smart city a 5G e grandi opere, ci pare evidente il passaggio sempre più definitivo, dal vecchio modello della città-sociale di epoca industriale, a quello della nuova città-a-socializzata dei servizi. Ne sono esempi locali il Centro svizzero di calcolo scientifico (CSCS), o l’Istituto Dalle Molle di studi sull’intelligenza artificiale. Centri di ricerca avanzata che sviluppano l’amministrazione e lo stoccaggio informatico di dati complessi, o la costruzione di confini e strutture di demarcazione sempre più impersonali, come le “vie di controllo securitario” gestite dai droni o da altre sofisticate macchine.

Grandi opere e grandi cantieri, ovviamente.

Oppure grandi baracche, sempre le stesse dalla svizzera di Schwarzenbach in su, con nuovi “terroni”, portoghesi, cinkali o jugo, da sfruttare, segregare e poi rispedire a casa, attraverso organizzazioni mafiose di caporalato a livello internazionale.

Quanto sangue e di quali persone è stato versato per permetterci di andare a fare un lavoro di merda a Zurigo in meno di un’ora?

Per chi attraversa quotidianamente questo territorio non sarà difficile constatare come la sua ossessiva vocazione metropolitana, non si riduca ad altro che a una cantierizzazione diffusa e permanente.

“Almeno c’è lavoro”, si dirà… Salvo poi constatare che di lavoro si muore. Non è facile accorgersene se non ti capita direttamente e son capita a un tuo parente, amico, conoscente. Perché nella svizzera della pace sociale non esistono dati validi sugli infortuni professionali e molto spesso chi si fa male deve tacere o denunciarsi al pronto soccorso come uno “sbadato”. Se vuoi sperare di entrare a far parte della cronaca o delle statistiche devi morire, ma l’importante è che i cantieri di grandi opere meschine procedano a tempi di record!

METROPOLI ED ECOCIDIO

Certo, sembrano concetti difficili da affrontare e da sottoporre a una critica efficace che possa muovere “dal basso”. Soprattutto se si tiene conto che la retorica di chi “sta in alto”, non trascura certo le scelte lessicali per validare la propria ragione urbana, mistificando volutamente le questioni in ballo e riaggregando la frammentazione sociale cittadina.

Sentiamo parlare infatti di “quartieri sostenibili”, di rilanci insediativi per il centro storico, di green-mobility o di quartieri attrezzati per le persone della terza età, di cittadelle universitarie a misura di studente e di mirabolanti progetti di risistemazione del lungolago. Nonchè di nobili interventi di riqualifica dell’area ex Macello, dal 2002 ‘ostaggio’ dell’autogestione, “da restituire finalmente alla popolazione cittadina!”

Basterebbe cominciare con il constatare che non esiste forma insediativa umana maggiormente insostenibile, energivora, consumatrice di suolo e socialmente iniqua del divenire metropoli delle nostre città. Chi vuol fare della Svizzera italiana una grande città-Ticino, promuove un modello di sviluppo che si basa unicamente sulla possibilità per ‘chi sta in alto’ di accrescere e conservare le proprie porzioni di potere, di mercato, di status sociale o di legittimazione autoritaria: sviluppando disprezzo, ingiustizia, saccheggio e razzismo. Il centro o i centri della futura città-Ticino dovranno disporre delle necessarie “periferie-Ticino”. Come dimostra l’evidente caso della regione del Mendrisiotto, tagliata fuori dalla grande opera alptransit, costretta nel collo di un imbuto saturo di nocività, territorio di frontiera in cui sperimentare catastrofi ferroviarie, ammassamenti di persone migranti che premono sui confini, blackout elettrici in modalità coprifuoco, per garantire il famelico fabbisogno energetico dei grandi centri della città-Ticino.

Rispetto all’abitabilità del centro cittadino luganese poi, è la storia stessa dello sviluppo urbano promosso da pianificatori e da sindaci architetti, impresari e palazzinari di questa città a spiegare perché la “piazza”, l’agorà, il vecchio cuore pulsante della vita sociale urbana è definitivamente collassato. Dopo gli sventramenti e i risanamenti forzati del Sassello, dopo la gentrificazione finanziaria, dell’industria turistica e dei servizi, dopo l’espulsione dal centro dei cosiddetti standard di vita non conformi, non possiamo ancora berci le storielle che vorrebbero propinarci un centro cittadino abitabile e alla portata di tutti/e.

Anche parlare di mobilità verde o di mobilità sostenibile, all’interno di un modello insediativo che spinge incessantemente all’estrema mobilitazione delle sue forze produttive, all’estremo sviluppo dei consumi, negando contemporaneamente la libertà di movimento e di insediamento per chi non può essere immediatamente “mobilitabile”, rischia di fornire solo qualche espediente di lifting urbano. In questo modello ideologicamente espansivo, un veicolo non sostituisce quasi mai un altro veicolo, semplicemente vi si somma, aumentando i flussi di scambio e di trasporto. E’ probabilmente grazie a questo fenomeno che dalle nostre auto incolonnate potremo ammirare finalmente entusiasti i droni, pubblici o privati, consegnare merci o informazioni per chi ha maggiore fretta e maggiori possibilità di permettersela!

La progettazione di interi quartieri dedicati all’insediamento di determinate categorie di persone, come le anziane ricche o le anziane povere, dimostra una volta di più la volontà di concentrare, delocalizzare, uniformare e controllare “dall’alto”. Così, dopo l’abbattimento dell’ex cinema Cittadella, nel quartiere popolare di Molino Nuovo, si prospetta la realizzazione di un palazzo con appartamenti di lusso attrezzati per persone anziane… ricche. Per le persone anziane meno ricche di Molino Nuovo e degli altri quartieri popolari in prossimità del centro cittadino, i costi degli affitti probabilmente aumenteranno e potranno gentilmente accomodarsi un po’ più in là. Possibilmente lontani dai nuovi quartieri centrali, magari nel prospettato nuovo quartiere di Cornaredo, sopra la zona della Resega, dove, guarda caso, il gruppo immobiliare Artisa ha in progettazione una zona residenziale per persone anziane o “svantaggiate”.

Quanto tempismo e che lungimiranza! Una perfetta integrazione tra il potere pubblico clientelare e gli interessi del business privato.

UNA CITTADINA UNIVERSITARIA O UN CAMPUS MILITARIZZATO?

Anche a chi, come il rettore dell’USI, fantastica a proposito dell’imminente apertura del Campus tra Viganello e Cassarate, sul possibile sviluppo di una frizzante vita studentesca, accattivante volano per il rilancio commerciale di interi quartieri cittadini (perché le persone che studiano devono essere soprattutto persone che consumano), basterebbe far notare che le rette universitarie di uno degli atenei più cari d’Europa, non lasciano (salvo per i pur frequenti casi di rampolli e rampolle dell’alta borghesia internazionale), ampi margini alla spesa privata. Ché una vita comunitaria studentesca, socialmente e soggettivamente liberata dalle necessità del mondo economico e industriale (soprattutto in vista del prospettato polo umanistico) è in primo luogo auspicabile, in quanto effettiva produttrice e propagatrice di saperi e di conoscenza critica, e non in funzione dell’addestramento di studenti-utenti consumatori, stressati e spremuti per essere meglio e più rapidamente inseriti nel mercato del lavoro. C’è poi la netta sensazione che fin tanto che rimarrà quell’Università elitaria, che denuncia per danneggiamento chi si permette di esprimere forme di contestazione ai suoi illustri ospiti, all’interno di una città securizzata, che impone coprifuoco e zone chiuse sui sedimi scolastici e universitari, dispone la chiusura di biblioteche e aule di studio in orari improponibili, nega ogni spontanea possibilità di riunione, di espressione e di manifestazione autodeterminata da parte di chi studia (L’Universo, unico giornale studentesco attualmente presente in Ticino, è edito e stampato dal Gruppo Corriere del Ticino: alla faccia della sbandierata indipendenza!), che non si pone minimamente il problema del diritto allo studio, per tutti e per tutte, allora probabilmente il modello di città universitaria, auspicato dal magnifico rettore, è una seria minaccia da cui guardarsi con attenzione.

Se poi la zelante polizia comunale picchia ragazzini colti a fumarsi le canne vicino al palazzo universitario, presidiato da securitas pronti a intervenire in caso di pericolosi atti vandalici (qualche scritta e qualche volantino), allora abbiamo ben capito che tipo di cittadella universitaria, securizzata e militarizzata, sarà imposta.

PINBALL WIZARD: DALLA NOIA ALL’ALIENAZIONE

Nel caso in cui questa complessa e veloce panoramica dei casi per una possibile critica della ragione urbana non risultassero agilmente apprezzabili, suggeriamo la possibilità di soffermarsi più semplicemente a osservare meglio quel vetro di cui abbiamo già parlato a proposito del campo per persone migranti di Cadro. In fondo, è lo stesso che ci separa costantemente, tra le vite desiderate e le forme di sopravvivenza imposte nello spazio cittadino. Magari anche solo quando assume le fattezze del parabrezza dei nostri veicoli privati, durante le ore di traffico congestionato, su quei molteplici itinerari che la nostra “democratica” cittadinanza ci impone:

tra casa e lavoro,

tra figli, figlie, genitori e lavoro,

tra il lavoro e gli uffici,

tra il lavoro e il bancomat,

tra la ricerca di lavoro e l’ufficio di disoccupazione,

tra un lavoro e un altro lavoro,

tra il lavoro e il pronto soccorso,

tra lavoro di cura non pagato e schiavismo salariato,

tra il tempo libero promesso e il tempo libero mercificato,

tra scuola e lavoro,

tra scuola e studio psichiatrico,

tra l’insopportabile quotidiano e la casa del pusher di fiducia,

per avvertire la netta sensazione di essere come palle schizzate dentro a un flipper. Magari riccamente scenografico e zeppo di cicalini colorati e bonus allettanti, ma sempre con un buco nero pronto a risucchiarci in caso di scarso dinamismo, bassa produttività, o semplice moto non conforme.

Si salva soprattutto chi rotola e rimbalza più forte, come le palline cattive del Tommy cieco, sordo e muto della prima opera rock della storia: “…sure plays a mean pinball” nella strepitosa Pinball Wizard degli Who.

Evidentemente, per chi non fosse ancora riuscito ad entrare, per diritto di cittadinanza, tra i frenetici ranghi delle palline sbattutte, la ragione urbana di questa città prevede una vita in deposito per palle fuori norma, non ancora utilizzabili, oppure da rispedire al fornitore biologico di depredati e lontani ecosistemi. Alle persone poco inclini a diventare palle, una vita a scontare dietro sbarre, vetri, fili spinati, o i muri sepolti di un bunker dismesso, riutilizzato per l’occasione.

CITTA’ DAL BASSO

Dal canto nostro e per come stiamo messi e messe, non ci interessa troppo addentrarci nelle ragioni profonde di un acritico e generalizzato assenso alla ragione urbana nella grande Lugano, della sua vocazione a governo del territorio, della sua frattalità consumistica, delle sue forme di disprezzo e segregazione, della sua movida esclusiva ed escludente. Da troppi anni forse, assistiamo alla progressiva disgregazione di quel corpo sociale, storicamente depositario di soggettività antagonista al modo di produzione capitalistico: la classe operaia. Non sappiamo e non vogliamo stabilire qui se sia stata più determinante, nell’affermazione del pensiero unico neoliberale, la sparizione della classe operaia dai luoghi urbani del conflitto tra capitale e lavoro, ad opera di politici di partito e di sindacalisti di professione, oppure la triste ritirata degli intellettuali “critici” dal dibattito pubblico, su temi come il diritto alla città, o i limiti stessi del concetto di cittadinanza e le sue possibili degenerazioni, così come sul ritorno sempre più massiccio di una preoccupante e diffusa assuefazione al comando autoritario.

Quello che sappiamo è che non abbiamo necessariamente bisogno di una o degli altri. Non è nostra intenzione aspettare l’avvento di una nuova e combattiva classe operaia o la ricomparsa degli intellettuali critici per rilanciare pratiche conflittuali all’altezza che la situazione attuale richiede. Certo, a farsi male o a morire nei cantieri edili della grande Lugano e della città-ticino sono sempre gli operai. A morire, ad essere respinte o schiavizzate sono sempre le persone dannate di questo pianeta. Ad essere costantemente piegato e umiliato, tanto nelle facoltà accademiche cittadine, quanto nel sistema dell’Information & Comunication Technology, è l’intelletto umano e la stessa capacità di pensiero critico e riflessivo. Purtuttavia, rimanere appesi a questa ingombrante attesa messianica ha spesso impedito di cogliere proprio quei nuovi soggetti sparsi, o in via di formazione che, con le loro pratiche e rivendicazioni, si sono posti in conflitto con il pensiero unico neoliberale. Troppo spesso sono state proprio quelle realtà e quelle pratiche di autorganizzazione dal basso, proprie delle esperienze autogestite a non venir considerate come possibili e concrete alternative alle imposizioni dall’alto. Ancora più spesso, pratiche autodeterminate come lo sciopero selvaggio, il sabotaggio e l’azione diretta, sono entrare a far parte di un lessico unicamente repressivo e autoritario, proprio di un diffuso stato poliziesco.

Proprio perché partecipi di un’esperienza pluriventennale, come realtà autogestita, come centro sociale occupato sotto minaccia di sgombero, riteniamo di dover rivendicare e ribadire una volta di più, la validità di tutte quelle pratiche legate all’autodeterminazione, all’autonomia, alla solidarietà e al riconoscimento individuale, collettivo, dei corpi piegati e sottomessi, dei popoli in resistenza, degli altri mondi in movimento, dei generi rifiutati e stigmatizzati o degli ecostistemi depredati, come possibili alternative alle città di chi ‘sta in alto’.

Perché quello che avvertiamo dalla nostra esperienza sensibile è che quel vetro che separa la tranquillità degli affari nelle metropoli del nord, dal saccheggio estrattivista perpetrato nelle vecchie e nuove colonie del sud è sempre più fragile e sottile. Non saranno certo le sirene terroristiche del decoro urbano o il linciaggio mediatico verso ogni forma di dissenso ad impeditrici di scagliare finalmente le pietre necessarie al suo definitivo abbattimento. Poi si vedrà.

A PROPOSITO DI NOI…

Nei periodi più recenti abbiamo assistito ad operazioni di sgombero e di repressione in varie parti d’Italia, in Francia, in Germania o nella stessa Svizzera d’oltralpe. Ovunque, le motivazioni che hanno giustificato l’attacco alle forme e alle pratiche di autogestione nei contesti urbani e non – dallo sgombero militare dell’Asilo Occupato di Torino, ai tentativi di distruzione delle esperienze auto organizzate di Notre Dame des Landes, dalle operazioni repressive nei confronti della libreria anarchica Fermento di Zurigo, fino alle numerose operazioni di sgombero delle realtà abitative di persone migranti, un po’ ovunque – si richiamano alla necessaria “normalizzazione” del territorio, al ristabilimento dello status quo di un diritto che è in primo luogo a garanzia della proprietà privata. Il ritorno alla legalità è il mantra scandito da destra a sinistra, per conservare la pacificazione sociale e garantire la governamentalità in scenari urbani sempre più invivibili.

L’importanza per Lugano e per tutto il pianeta dissidente di un luogo come il CS()A Il Molino, sta ancora nel fatto di poter disporre di uno spazio di agibilità contro l’inerzia della catastrofe, che a sud come a nord pare dispiegarsi senza sosta. Preparare il terreno per una nuova possibile convergenza antagonista, resistente, clandestina, solidale, è forse qualcosa che possiamo ancora fare. Che dobbiamo difendere.

Il Molino non si tocca! Ci si vede nelle strade!

1 E’ del resto molto divertente notare come i padroni dell’impresa dolciaria Perfetti-Van Melle, proprietaria del brevetto della celeberrima caramella polo –“il buco con la menta intorno”- e delle gomme da masticare Brooklyn, che tanto dolce hanno reso l’infanzia di alcun* di noi, siano risaputamene tra gli italiani più ricchi residenti in Ticino. Il gruppo Perfetti Van Melle, attivo nel settore dolciario, è oggi il terzo al mondo. Residente in Ticino, la famiglia vanta un patrimonio che è valutato tra i 3-4 miliardi di franchi. Da swissinfo.ch