Libera traduzione dell’articolo di Nora Strassmann apparso su la WOZ

Data pubbicazione: 11.7.2019

Articolo originale in tedesco

“Sotto terra si fa fatica a respirare”
Aria soffocante, nessuna luce naturale, non un centesimo, libertà di movimento molto limitata: chi è alloggiato nel bunker di Camorino si ribella a condizioni insostenibili.

A lato di un piccolo prato tra l’entrata autostradale e la centrale di Polizia, c’è una ringhiera di metallo che a mala pena si vede. Quello è il punto da cui, percorrendo uno stretto passaggio, si scende sottoterra. L’entrata del bunker non potrebbe essere più nascosta di così. Due agenti della Securitas pattugliano l’area desolata che è attorno e ci osservano da lontano. Non c’è nulla che possa far sentire benvenuti. L’alloggio per migranti, gestito dal Canton Ticino e fino a poco tempo fa anche dalla Croce Rossa, si trova sul territorio di Camorino, non lontano da Giubiasco e nel Comune di Bellinzona. Piano piano appaiono 4 uomini da sottoterra. Sono disposti a parlare. “Siamo esseri umani che sono stati portati in questo posto affinché ci si dimentichi di noi. Vorremmo vivere, ma mi sento come morto” dice Behranu Bikila*. Il 28-enne etiope è da quasi 4 anni in Svizzera.

I respinti
Lunedì 24 giugno più di 30 richiedenti l’asilo alloggiati a Camorino, praticamente tutti quelli che erano presenti a quel momento, hanno iniziato uno sciopero della fame in segno di protesta per le condizioni di vita. Una foto di 12 di loro ha destato scalpore nei media ticinesi e nell’edizione svizzero-tedesca di “20 minuti”. Il giorno dopo il Cantone, in accordo con la Croce Rossa, ha trasferito tutte le persone in procedura d’asilo presso altri centri o in un appartamento in Ticino. Nel bunker sono rimasti 7 uomini, tutti respinti dalla Svizzera – i cui Paesi d’origine non hanno sottoscritto accordi di riammissione.
Youssef Farès vive da un anno a Camorino. Il 24-enne marocchino dice: “A causa dell’aria stantia, nel bunker si fa fatica a respirare”. L’acqua è giallastra e non bevibile. Da un anno è la società di sicurezza Securitas che sorveglia il bunker per conto del Cantone. Da circa 2 anni era la sezione ticinese della Croce Rossa che gestiva il centro e fino al 24 giugno era presente per garantire un minimo di assistenza, dice Farès. Dal primo giorno dello sciopero questo supporto è stato tolto, dato confermato anche dalla portavoce della Croce Rossa Ursula Luder. La Croce Rossa si occuperebbe dei richiedenti che sono in procedura d’asilo. Per i respinti a Camorino è il Cantone il solo responsabile.


“I quattro agenti della Securitas ci danno quotidianamente un litro d’acqua, un pezzo di pane con marmellata a colazione, un pezzo di pane con formaggio per pranzo e la cena” dice Farès. A volte un pasto semplicemente non viene consegnato. Ma la cosa peggiore è lo stress e l’incertezza di cosa può succedere a ogni momento. “ Là sotto c’è puzza di fogna e di gas fuoriuscito. Abbiamo paura che il bunker possa esplodere da un momento all’altro. Esperti, venuti qui recentemente, hanno detto che dobbiamo fuggire molto in fretta se parte l’allarme del gas” racconta il giovane uomo che aggiunge perplesso: “Ma come potrebbe esserci il tempo di fuggire nel caso di un’esplosione?”
Malgrado tutto, dormono ancora adesso 7 persone in quel buco sottoterra scavato a suo tempo per scopi militari, perché le autorità dell’ufficio della migrazione ticinese non vogliono mettere a disposizione altro. A differenza di altri Cantoni non ricevono nemmeno l’aiuto finanziario minimo previsto dall’aiuto d’urgenza. Oggi Farès deve andare dal dentista a Bellinzona. Pensa però che non ha il permesso di andare oltre Giubiasco. Siccome le indicazioni vengono date solo in italiano e a voce, si creano molti malintesi e confusione.
Samuel Hailemariam*, 32-enne, originario dell’Eritrea e da un anno e mezzo alloggiato a Camorino, racconta: “Speravo che con lo sciopero della fame il bunker sarebbe stato chiuso nel giro di una settimana.” Tra chi è rimasto lì c’è anche un algerino, 48-enne, che da un mese non si alzerebbe più dal letto se non per andare in bagno, racconta Hailemariam. Senza soldi, senza libertà di movimento e senza la prospettiva di accedere a qualcosa di nuovo, ad attività e contatti sociali, rimane loro il cibo prescritto, passeggiare dormire: sembra come di stare in prigione.
Il Collettivo R-esistiamo dall’anno scorso si è impegnato affinché il bunker venga chiuso. In primavera è stata inoltrata una petizione che andava in tal senso. Ci si è appellati a un documento della Commissione Nazionale per la prevenzione della tortura del 2014, che indica di 3 settimane al massimo la durata di permanenza in un alloggio sotterraneo. Soprattutto la cattiva qualità dell’aria e la mancanza di luce naturale sono pericolose per la salute fisica e mentale. Più di 100 medici attivi in Ticino hanno sottoscritto la petizione nel giro di poco tempo.
Renato Bernasconi del dipartimento cantonale della sanità e della socialità, ci tiene a esprimere un’altra visione delle cose: “Tutti i bisogni di base dei richiedenti l’asilo respinti a Camorino, in particolare alloggio, vitto e assistenza medica sono coperti da parte del cantone, per questo non ricevono contanti” dice. A mezzogiorno riceverebbero un sacchetto-lunch contenente 2 panini, 2 bottiglie di acqua da mezzo litro, una mela e uno snack. “Se vogliono di più, possono chiedere in ogni momento dell’acqua.” Nega un nesso causale tra lo sciopero della fame e il trasferimento delle 20 persone in procedura d’asilo.
Della persona malata che da un mese non esce dal bunker non ne sa niente. Come pure della fuga di gas. Alla domanda, come mai non sia possibile trasferire anche le poche persone rimaste in alloggi dignitosi, risponde: “L’alloggio è anche per noi un tema importante. L’infrastruttura necessaria non è ancora disponibile, ma costruiamo un nuovo centro a Camorino.”

Condizione d’incertezza permanente
Kenan Tannoudji* vive da 16 anni in svizzera. Il 45-enne algerino dice che da quando è arrivato non ha mai potuto vivere in un appartamento bensì solo nei centri per asilanti. “Le autorità non hanno riconosciuto la mia ragione di fuga quale attivista politico, perché non c’era la guerra. Ma anche l’Algeria non mi ha voluto riammettere.” Il suo caso è esemplare per migliaia di richiedenti l’asilo respinti, sospesi in una condizione d’incertezza permanente tra 2 Paesi, senza veramente essersi potuti ambientare in Svizzera. Né qui né là sono benvenuti. “Il Cantone è riuscito a calmare l’opinione pubblica a nostre spese. Non può essere che si continui a trattarci come animali. Questa situazione scandalosa deve finalmente concludersi.”

*tutti i nomi sono stati modificati