Riflessioni su Isis e Deir ez-Zor dalla Brigata Maddalena

19 aprile 2019 – Assistere agli ultimi giorni del califfato, è uno spettacolo avvincente, decine e decine di giornalisti accorrono a Deir ez-Zor assetati di immagini, per raccontare al mondo la fine di Daesh. E molte sono anche le mani che si allungano nel tentativo di accaparrarsi una quota della vittoria imminente, tutti vogliono salire sul carro del vincitore. La realtà, come spesso accade, è più complessa di come viene raccontata dai notiziari h24 che non fanno che riprodurre immagini di esplosioni e combattimenti mercificando la rappresentazione della guerra, sulla testa di milioni di martiri. La situazione a Der ez-Zor si è evoluta con lentezza proprio per dare conto a tale complessità, per non causare morti inutili, per permettere fino all’ultimo al nemico di arrendersi. L’esito che seguirà questo lungo assedio all’ultima roccaforte di Daesh è incerto, ciò che invece è certo è che questa non è la fine del fondamentalismo islamico. Tutti odiano Isis, è facile odiare Isis, il nemico pubblico per eccellenza del momento: uomini assetati di potere e di gloria, assetati di vendetta, assassini senza scrupoli, stupratori artefici delle peggiori nefandezze, ma sopratutto estremisti islamici, esponenti dell’Islam radicale. Attraverso la propaganda del potere l’Islam di per sé finisce per essere percepito così da parte della società occidentale. È tanto facile odiare Isis, quanto è facile dimenticare e offuscare anni di politiche imperialiste e colonialiste in Medio Oriente.

 

Forse più che parlare della “fine” di Isis sarebbe importante ricordarne l’inizio. Era poco dopo il 2003, poco dopo che una guerra insensata e ingiusta, portata avanti dagli Stati Uniti d’America devastasse l’Iraq, cercando di convincere il mondo intero che la loro guerra violenta e brutale fosse un atto d’amore e democrazia per liberare il paese dalle grinfie di un perfido dittatore. Peccato che come sempre nessuno avesse chiesto tale amorevole aiuto e che la presenza ingombrante degli americani nel definire e maneggiare il futuro del Paese, abbiano favorito e incoraggiato l’imminente espandersi del radicalismo islamico. Con la classica tecnica del dividi et impera, a guerra conclusa, il controllo del paese fu messo nelle mani di Nuri al-Maliki, rappresentante della minoranza shiita, la dove la maggioranza degli iracheni è sunnita, contribuendo a fomentare il malcontento generale.

Daesh non spunta fuori dal nulla, inizialmente non è altro che una branca di Al-Qaida, che a sua volta è prodotto di quella proliferazione di gruppi jihadisti che vennero armati e finanziati dagli stessi Stati Uniti fin dai tempi in cui volevano contrastare l’avanzata dell’Unione Sovietica in Afghanistan nel periodo della guerra fredda. Inoltre, è il caso di ricordarlo, i cosiddetti “foreign fighters” di Isis hanno avuto un accesso privilegiato in Siria attraverso la Turchia. La stessa Turchia, che da un lato faceva accordi con l’Europa per contenere i migranti, costruendo un lungo muro al confine con la Siria per bloccare l’esodo di chi scappava dalla guerra, mentre dall’altro lasciava aperti i suoi confini per i nuovi combattenti di Daesh. O ancora quella stessa Turchia che ha potuto attaccare e occupare la zona autonoma di Afrin, nel silenzio generale delle grandi potenze della coalizione.

A differenza di Al-Qaida e di altri gruppi Jihadisti, Isis ha avuto la capacità di proporre ai suoi seguaci un sistema concreto di vita e una terra in cui realizzarlo. È a Mosul, la seconda città più grande in Iraq, a quel tempo sotto l’occupazione dell’organizzazione terroristica, che il 29 giugno 2014 , l’autoproclamatosi califfo, Abdu Bakr al Baghdadi ufficializza la creazione di un nuovo califfato islamico sotto il nome di Stato Islamico (IS). In poco tempo l’organizzazione ha raggiunto la realizzazione di alcuni dei suoi obiettivi politici più importanti. da un lato l’estensione fulminea del suo territorio al di fuori dell’Iraq nella costruzione di un califfato diffuso, senza confini e dall’altro quello di una globalizzazione dell’Islam, molto attraente per i volontari stranieri.

Dopo Mosul nel 2014 ci sono stati Kirkuk, Shengal e il femminicidio-genocidio degli yazidi, l’occupazione di tutto il nord e nord-est della Siria fino al confine con la Turchia. Raqqa, Minbij, Aleppo e molte altre città si trovarono sotto l’occupazione delle forze di Daesh, e nuove strutture simili a quelle di uno stato emersero, istituzioni, tribunali e leggi, quelle della Sharia, un nuovo sistema economico, un servizio militare e di polizia per garantire l’applicazione della sua ideologia fascista e assassina.

In risposta a questa violenza, alla crescente diffusione di Daesh, alla partecipazione di massa dei combattenti stranieri e ai numerosi attacchi terroristici rivendicati dall’organizzazione in Occidente e negli Stati Uniti, è stata intrapresa una guerra contro coloro che hanno ottenuto il titolo di nemico numero uno all’estero. L’Unità per la protezione delle donne YPJ, la coalizione militare arabo-curda (SDF), la cui principale componente è l’YPG, ha condotto una grande battaglia in 4 anni per ridurre ed eliminare Daesh da ogni angolo della Siria settentrionale e orientale. Ci ricordiamo quindi della resistenza di Kobane. È impossibile non ricordare che questa battaglia è stata importante e ha dato una svolta alla storia. Per la prima volta dall’inizio dell’espansione del Califfato, lo stato islamico fu sconfitto.

Le bande terroriste di Daesh hanno cominciato allora una lunga caduta, accumulando sconfitte su sconfitte, perdendo gradualmente gli stessi territori precedentemente occupati e distrutti, di fronte alle forze Ypg e Ypj. L’incredibile partecipazione e determinazione delle donne dell’unità Ypj, durante questo combattimento divenne infine uno dei modelli di resistenza più importanti nell’area del Rojava e nel mondo. Dalla resistenza di Kobane nel 2015 all’ultima offensiva di Al-Baghuz nella regione di Deir ez-Zor nel 2019, il gruppo terroristico non ha più alcuna area sotto il suo governo.

Abbiamo pensato molto a quest’ultima affermazione. È davvero possibile affermare che la più importante organizzazione terroristica che il mondo abbia conosciuto sia davvero finita, mentre uno dei suoi principali punti di forza è la diffusione della sua ideologia oltre le sue terre. Quando siamo state nelle zone dove si radunavano i civili, i combattenti e le famiglie Daesh, arresi o fuggiti da Baghuz abbiamo incontrato un numero impensabile di internazionali. Vedendo tutti questi volti provenienti da Francia, Belgio, Inghilterra, Stati Uniti, Indonesia, Filippine ci siamo chieste perché queste persone avessero deciso di abbracciare questa ideologia, più specificamente per quelli che non hanno avuto un passato o un’educazione religiosa da parte della famiglia, ma hanno semplicemente preso la decisione di seguire e applicare questa ideologia.

Lo Stato islamico e il suo califfato sono presentati dai suoi leader come un’alternativa politica e comunitaria al moderno sistema capitalista, che si basa su un rifiuto totale di ciò
che viene dall’Occidente e dagli Stati Uniti. Ciò che chiamiamo capitalismo è questa grande bestia che dà da mangiare ai pochi che possono permetterselo, mentre schiaccia tutti gli altri, offrendo loro nient’altro che gli avanzi di anni di politica corrotta. Forse è proprio questa esclusione, questa marginalizzazione, questa vita priva di valori, di bellezza, di futuro, che porta le persone a  cercare rifugio in una comunità solidale e a trovarla in una comunità e identità religiosa. Qui nasce l’incontro con la parte più chiusa e fondamentalista della religione islamica, generatasi con la discriminazione dei musulmani da parte delle potenze e delle società occidentali e nei paesi islamiche. A causa del vuoto totale che molti vivono, la forte propaganda degli islamisti è una prospettiva attraente e molti si convertono a queste idee. Forse proprio questo è ciò che ha portato molti ad andare in Siria per seguire la jihad. Quindi parlare di ISIS e dei suoi foreign fighters è possibile solo parlando anche delle conseguenze del neocolonialismo e del capitalismo.

La propaganda dell’ISIS, uno dei loro strumenti più potenti, si basa sull’idea di un’identità comune, la branca jihadista salafita dell’Islam in contrasto con l’ideologia del capitalismo che ha cancellato le nostre radici tenendoci nell’ignoranza della nostra storia comune e quindi isolarci gli uni dagli altri. Troviamo nell’Islam l’idea che la vita vera è quella vissuta dopo la morte, che dobbiamo vivere giustamente il nostro presente. Questo stesso pensiero è stato reinterpretato da Daesh trasformandolo in un culto della morte, la bellezza della morte e non più la bellezza della vita. E quale valore è più importante del vivere la vita con la bellezza? Vivere con la bellezza è vivere in libertà, in modo democratico, dove ogni identità fa sentire la sua voce e convivere gli uni con gli altri. E capiamo che il grande mostro del capitalismo ha avuto un ruolo centrale. Affamato, è stato in grado di mangiare gradualmente tutte le cose che rendono una vita bella e libera. Il capitalismo è il vuoto della vita e della morte. Lo Stato Islamico ha usato questa idea di vuoto dello stile di vita occidentale per evidenziare la sua idea della bellezza della morte.

Ci sono molti altri valori caduti nell’Occidente che sono stati usati dalla propaganda dell’IS per indurre le persone a ricercare una verità o anche una vita alternativa radicale a quella attualmente proposta nei paesi occidentali. Dovremmo quindi interrogarci sulla capacità dei nostri movimenti rivoluzionari e ribelli di combattere contro il grande mostro del capitalismo. Nonostante lottiamo quotidianamente per costruire una nuova ideologia, nuove forme di vivere insieme in forma autonoma, fuori e contro il capitalismo, non siamo riusciti a incontrare queste persone, le nostre vicine e i nostri vicini che, come noi soffrono l’oppressione dello stesso mostro. Siamo rimasti chiusi tra di noi? Abbiamo davvero un’ideologia? Le nostre pratiche sono inclusive di tutti? Siamo davvero riusciti a creare una comunità alternativa e solidale? Considerando il gran numero di occidentali che hanno aderito all’ISIS, ci chiediamo: il successo di Daesh non è anche il risultato del fallimento dei nostri movimenti?

Come scrive il ricercatore Olivier Roy “Non è l’islam che si è radicalizzato ma la radicalizzazione che è diventata islamizzata“. Ora che il califfato jihadista è “distrutto”, che Al-Baghuz è stata liberata, ci chiediamo quale sia il destino delle migliaia di combattenti e specialmente dei civili e delle famiglie di Daesh. Mentre gli uomini vengono mandati in prigione, i civili e le famiglie vengono trasportati in diversi campi in Siria e Iraq. Per coloro che saranno trasferiti in Iraq, come gli internazionali, l’idea di una qualche redenzione sembra complicata quando  sappiamo che la pena di morte è ancora una possibilità per le persone che hanno aderito allo Stato islamico, come combattenti o come civili. E i bambini nati nel califfato, che hanno documenti dello stato islamico non riconosciuti in nessun altro paese del mondo, probabilmente non saranno mai in grado di tornare nel paese natale dei genitori. Sono le figlie e i figli di nessuno, gli indesiderati, condannati a vivere isolati nei campi profughi. L’attuale isolamento di questi campi ricrea i combattenti dell’ISIS di domani. Come un cerchio infinito.

Da un lato ci da speranza la capacità delle compagne e dei compagni delle SDF e Ypj nel trattare i propri nemici con incredibile rispetto. Abbiamo visto le compagne accogliere quelli che fino a poco prima erano i loro aguzzini, con estrema dignità. Dall’altra parte l’eterna complicità dei poteri forti nel perpetrare la guerra, ci ricorda, che per comprendere le radici profonde di questo movimento sia necessario risalire a ritroso nella capillare edificazione che il potere ha cementato, mattone dopo mattone, di una minaccia globale chiamata in molti casi terrorismo islamico, ma spesso più semplicemente, arabo, musulmano, altro. Se la diffusione dell’islamofobia a livello planetario ha raggiunto il suo apice e assistito ad una crescente sistematizzazione a partire dal’11 settembre 2001, d’altro canto la contrapposizione e la costruzione della differenza fra un’occidente democratico e sviluppato e un oriente barbaro e incivile è una storia che si ripete almeno dalla campagna napoleonica di conquista dell’Egitto del 1798.

La spartizione del Medio Oriente in zone di influenza avvenuta con gli accordi segreti di Sykes-Picot nel 1916 con la dissoluzione dell’impero Ottomano, è un gioco che vediamo riproporsi di continuo, cambiano gli attori, ma rimane la sostanza. Mai come davanti a questa guerra possiamo urlare “vostre le guerre, nostri i morti”. Quanti trincerandosi dietro lo spauracchio del nemico islamico hanno allargato le proprie maglie del potere, seminato odio, pasciate le proprie industrie belliche, costruito muri, affogato migranti nel mediterraneo e urlato all’invasione. E quanti, sono caduti e continuano a cadere nelle reti di questa menzogna e festeggiano oggi davanti alla distruzione del califfato, leggendola, erroneamente, come un’ennesima vittoria dell’occidente civile sulla barbarie.

La novità è che chi ha davvero resistito e combattuto in questa guerra, il popolo curdo, il popolo arabo, il popolo yazida e quante e quanti sono venute i questa terra per combattere per la libertà, a questa menzogna non ci credono, perché hanno subito anch’essi per secoli la morsa “democratica” dell’oppressione occidentale e le conseguenze del suo dominio. Chi davvero ha combattuto ed è caduto nella lunga lotta contro il califfato, non l’ha fatto per interesse o per odio, l’ha fatto per far sorgere in questa terra la libertà, per coltivare forme di autonomia e auto-organizzazione che  possano essere l’inizio, dopo secoli di soprusi, di una nuova storia per il medio-oriente e per il mondo intero.

Der Ez Zor 11 Marzo 2019 – Brigata Maddalena