IL SANGUE DELLE CIMICI di Afroditea

Autodeterminazione, dominio, razza e colonialità

Si sta creando un equivoco pericoloso rispetto a una questione fondamentale: l’autodeterminazione. Da sempre espressione legata alle lotte d’autonomia e d’emancipazione in basso a sinistra, viene ora – in un territorio devastato da leghe e affini – furbescamente riproposto in chiave di sovranità e di superiorità dalle neo-destre fasciste e liberiste. Una chiara visione di classe – quella dirigente, quella al potere, quella dei “padroni a casa nostra” – che si autocelebra consegnandosi pieni poteri per continuare a fare ciò che vuole, impunemente e a scapito delle vite dei più espostx e dei più colpitx. Ma autodeterminazione è invece da sempre concetto legato a popoli e persone che il sistema lo mettono in “discussione”. È legato alle lotte dei popoli (da quella del popolo curdo a quella palestinese), a quelle delle donne (che combattono un sistema sessista e razzista, che si autodifendono dalle aggressioni, dagli abusi e dalla dominazione maschile, che autodeterminano il proprio corpo, che decidono come coprirlo o come scoprirlo); alle lotte di autodefinizione del proprio genere, della propria sessualità, dei propri amori; a quelle callejere di ragazze e ragazzi che si riappropriano del territorio, di spazi e di luoghi, che fomentano e sperimentano conflitti, culture, rabbie; fino a quelle – e di queste tratteremo – di coloro che viaggiano, si spostano, migrano e che ci mettono di fronte ai nostri privilegi e alle nostre contraddizioni. “Le lotte in Catalunya per l’autodeterminazione – riprendendo le parole di una compagna basca femminista-libertaria all’ultimo incontro di Logos a Roma -, al di là di tutte le critiche possibili, segneranno e formeranno in maniera marcata e contundente tutta una nuova generazione di ragazze e ragazzi politici e questo lo si vede marcatamente nella presenza ai cortei antifascisti, nelle mobilitazioni femministe e migranti. È da lì che ripartiamo verso una nuova visione di società.” E rigettando a mare le posizioni sovraniste aggiunge: “al concetto di sovranità toglietegli l’inganno neoliberista e capitalista, despatriarcatelo e riposizionatelo in un senso di autogoverno, d’autodeterminazione e d’autonomia dei popoli e godetevi i risultati…”

Houssan la mattina esce
spesso in bicicletta. Presto perché “dentro, dormire, è un inferno. Perché dentro fa caldo, siamo in tanti, manca l’aria e ci sono quelle maledette bestie che si attaccano ovunque”. Houssan si annoia a non fare niente. Ed è stanco di non fare niente. È da febbraio che la sua vita, in Ticino, gira in tondo. Bicicletta, la mattina, a girare per le vie di comuni e paesini, per spezzare il tempo e l’isolamento obbligato. Pochi soldi in tasca, manco bastano per un pacchetto di sigarette. “Almeno fumassi”, dice sorridendo in un buon italiano. “Quel giorno erano le otto di mattina, forse un po’ prima – mica se lo ricorda – tanto ogni giorno è lo stesso. Inforco la bici, quella prestatami da una ragazza come te. Andare in bici, la mattina, mi fa bene, mi fa pensare ad altro. Mi allontana dalla guerra, dalla fuga, dal viaggio. Dalle condizioni alle quali da mesi e mesi sono confinato. – Perché?” Mi chiede, timido e un po’ disilluso. La stradina è piccola, spiega, e c’è pure un palo che ne rende difficile il passaggio. Camminando passi uno alla volta, non riesci a incrociarti, figurati a spingere la bicicletta. Pochi metri dopo il bunker e lì, proprio dietro alla centrale di polizia, sono in due a guardarmi, ad aspettarmi.
– Te l’abbiamo già detto, questo è un marciapiede e in bicicletta non ci puoi andare.
– Ma come faccio a passare se a malapena c’è spazio per una persona? E poi non c’è nessuno qui. Che fastidio vi do?
– È così, qui siamo in Svizzera, le regole sono così – dice uno.
– E l’altro aggiunge: arrangiati, prendi la strada, cambia percorso. Anzi facciamo così, vieni con noi che così magari impari la lezione.
Houssan viene portato dai due agenti in centrale: “dentro sono tanti, ti mettono timore. Quando noi siamo di più stanno tranquilli e ci rispettano ma quando sono loro in tanti, diventano subito arroganti e minacciosi. Subito mi perquisiscono, sono più di due a farlo e sembra si divertano. Mi danno dei colpi sulle gambe. Più larghe ste gambe, dice uno in tono cattivo. E un altro minaccia: sicuro che qualcosa addosso glielo troviamo. Che tanto tutti così siete”. La perquisa dura una mezzoretta.

“È sempre così – ci dice Houssan – pensano sempre che abbiamo tutti droga da vendere o da usare. Sempre le stesse minacce. Per loro se sei di un altro colore o se sei lì dentro sicuro vendi droga o fai qualcosa di male”. E si permettono di tutto, come successo a Zack, cui una volta hanno chiesto incattiviti dove aveva preso l’adesivo degli ultras dell’Ambrì attaccato dietro il telefonino. “Perché – aveva chiesto – è illegale?” E così l’avevano lasciato stare.
Non solo la polizia, ma anche il responsabile della Croce Rossa o quelli dello stato. “Il capo della Croce Rossa, ad esempio, ci continua a promettere cose. E ci minaccia, ci ricatta e da qualche tempo ci dice di stare attenti a uscire con voi, a manifestare che poi perdiamo il posto e una casa o un permesso non lo vedremo mai. E appena inizi a dire quello che non va, ti dicono che ti mandano a Mendrisio, in clinica, e che ci daranno le pastiglie. O che ti spediscono in cima alla Val Verzasca, come successo pochi giorni fa sempre con Zack”.

Poi, prima di potere finalmente partire, già avviatosi verso la porta, l’ultima, velata, minaccia: “e ricordati che la bici la devi spingere e che da Camorino3 non puoi uscire. Mica penserete di essere in vacanza, voi potete stare solo all’interno del comune e se uscite non preoccupatevi che lo sappiamo e vi veniamo e prendere e ritornate qua dentro, altro che villeggiatura…”
Il ruolo dei media nel narrare le migrazioni è fulcro di stereotipi, forzature, caricature e falsità. Di fatto un gioco che alimenta paure e tensioni e che contribuisce a vedere e a rafforzare l’immagine del “diverso” come un potenziale pericolo. Per un servizio di “indagine”, dieci sono gli articoletti che rafforzano tutto il sistema: “rissa al centro asilanti a Chiasso”; “degrado sulle panchine fuori dal centro richiedenti l’asilo di Losone”; “rifugiato eritreo ubriaco importuna giovane ragazza”. Il tutto condito e rafforzato da un chiaro linguaggio volto a dividere tra esseri superiori – noi – delle persone, delle persone nella zona dell’essere4 ed esseri inferiori – loro – delle non persone, delle non persone nella zona del non essere: “richiedenti l’asilo”, “profughi”, “neri”, “mussulmani”. Basta prendere alcuni “pezzi” giornalistici di testate così dette liberal per provare come, al di là dell’effettivo consolidamento delle destre xenofobe e repressive in quasi tutto il mondo, a questa costruzione partecipano e anzi è fomentata da tutta una galassia di centro, centro-sinistra e pseudo sinistra che, ormai da anni, ha dato campo libero al devasto attuale. Il giornale italiano La Repubblica, a inizio settembre scorso, titola e scrive: “Uccisi a piedi dopo l’alcool test. Ubriaca la ragazza al volante”. “Una tragedia in cui l’alcool accomuna le vittime e l’investitrice. Una ragazza di 21 anni di Ornago con la sua auto travolge e uccide due pedoni marocchini” (…) Leggendo l’articolo l’autore si sofferma sull’ubriacatura dei 2 ragazzi (marocchini…), mentre lo stato d’ebrietà al volante della ragazza (italiana…) viene quasi del tutto tralasciato. Non immagino fosse stato il contrario..!

Altro esempio, Il Caffè delle 2 ultime edizioni: dapprima (7.10.2018) quando racconta, dal punto di vista delle telecamere fisse di una pensione di terza categoria (tralasciando evidentemente il vero e proprio business fatto da alberghi e alberghetti sulle spalle delle migrazioni, con pasti fugaci e mal fatti, condizioni igieniche deplorabili e i preziosi guadagni ottenuti ospitando ospiti invisibili che tanto non contano niente e mai diranno qualcosa5) la deportazione di una famiglia (una donna e due bambini) avvenuta, secondo il giornale, nella legalità e nella tranquillità. Salvo scagliarsi in seguito con il suo direttore Lillo Alaimo (Quando i fini umanitari non giustificano i mezzi) su chi specula e denuncia i metodi di tali “trasferimenti”: le battaglie di legalità vanno condotte… nella legalità. (…) e non vanno condotte con le armi della facile generalizzazione, del linguaggio gridato e improprio, delle accuse a pioggia. Al di là dell’effettivo esercizio della violenza, il democratico Caffé ci dice che lo Stato può venire a prenderti alle 5 di mattina e prelevarti senza preavviso e in condizioni precarie e rimandarti là dove saresti nuovamente in pericolo. In un altro mondo questa pratica si chiamerebbe deportazione! Due settimane dopo (28.10.2018) lo stesso direttore in un’intervista all’ex responsabile di Argo 1, nel consueto gioco di “ci sono vite che valgono più di altre”, nel raccontare le vessazioni subite da un ragazzo al centro di Camorino (picchiato e ammanettato alla doccia per ore, perché molesto e ubriaco), “si scorda” tutte le ragioni per cui si possa andare in escandescenza in tali condizioni di vita, facendo risaltare solamente la pericolosa ubriacatura del ragazzo.

Ultimo esempio il degradante articolo-indagine in seconda pagina de LaRegione Ticino (20.12.2017), nel quale la vice direttrice Simonetta Caratti, narra della mancata integrazione delle donne eritree colpevoli di non imparare l’italiano e di non volersi inserire. Con un titolo agghiacciante, Ghetti d’oro e pelle nera, l’articolo vorrebbe indagare nei “palazzi dove in Ticino vivono gli eritrei” ma di fatto testimonia tutta la supremazia, la morale e la superiorità colonialista, accusando, anche da un punto di vista “femminista”, le donne eritree di voler restare nella sottomissione e nel gioco di dominazione dei maschi e di non volere minimamente integrarsi e liberarsi. Così facendo fomenta un tipico atteggiamento caro a una visione del mondo bianca e occidentale, che denuncia sì il patriarcato e la violenza – spesso e soprattutto quella di uomini razzializzati6 su donne razzializzate – rivendicando parità salariale e il pari accesso alle opportunità dei maschi (bianchi), ma che poi riproduce una dinamica chiaramente razzista e colonialista. Non nominando queste componenti e portando unicamente le rivendicazioni di un femminismo bianco, si ripropone lo schema per il quale qualunque processo di liberazione che tenga come obiettivo d’acquisire l’uguaglianza con i maschi bianchi della classe dominante, ha evidenti interessi nella continuazione dello sfruttamento e dell’oppressione di altri gruppi7. O come ci dice Angela Davis8 quando segnala che l’uso generalizzato della categoria “donna” nasconde una razzializzazione clandestina operante dentro questa categoria, secondo la quale “donne” in realtà significa “donne bianche” o, ancora più concretamente, “donne bianche accomodate”.

Abdoullah viene da Ghazny in Afghanistan, città d’importanza architettonica e culturale notevole e già capitale dell’impero degli Yaminidi, quello che si estendeva dalla Persia occidentale fino alla valle del Gange. Abdou, come lo chiamano i suoi compaesani, la sera fatica a dormire. Ma Abdou adora anche ascoltare musica. “Per passare il tempo, per combattere la solitudine e per ricordarmi della mia terra. Sai, la mia terra è una terra maledetta, devastata dalla guerra e da sempre considerata bottino da saccheggiare. Dall’Europa, dai russi, dagli americani. Ma anche dall’India e dal Pakistan. Perché in Afghanistan siamo ricchi. In Afghanistan abbiamo oro, petrolio, droga, gas. Ma tutti passano a prendere tutto e là non resta più niente. Si servono a piacimento, sai l’Afghanistan è uno dei paesi più importanti nella geopolitica mondiale”.

Abdoullah, come quasi tutti, non dorme bene a Camorino: “fa caldo e siamo in 35 per stanza, con pochissima aria e nessuno spazio personale. Come si fa a dormire bene?” Altro che – aggiungo io – tutti gli svizzeri hanno fatto il militare nei bunker: Sì, due settimane con le libere uscite e il fine settimana libero, mica mesi e anni parcheggiati lì sotto, dimenticati da tutti. “Come faccio ad ascoltare la musica di sera senza disturbare gli altri? E se tutti volessero ascoltarla e ognuno mette la sua come si fa?” Allora, decidendo lui cosa e come fare, Abdou prende l’abitudine di uscire fuori dal centro, la sera, in quella terra di nessuno spersa tra la sede della polizia, i silos abbandonati dei depositi, gli uffici e le officine del controllo tecnico. Un non luogo, o meglio ancora, un luogo del potere e del controllo. Abdou l’ascolta la musica. La sente vibrare, la balla. Soprattutto quando è triste o le rare volte che sente la felicità. Ma quella sera è stato diverso. Forse non erano neppure le 10 quando si sono presentati quei due in divisa. Poliziotti, dice. Poliziotti senza rispetto e arroganti.
– Perché ascolti la musica qua fuori? Lo sai che non si può. Voi dovete stare dentro, non dovete uscire.
– Ma qui non disturbo nessuno. Non c’è nessuno. Non passa mai nessuno. Che fastidio vi do. Dentro gli altri dormono, non voglio disturbare. E poi fa caldo e ho bisogno d’aria.
– Eh no, qui non funziona così. Qui siamo in Svizzera non a casa tua. E in Svizzera anche se c’è la democrazia ci sono delle regole da rispettare. E dopo le 11 la musica non si ascolta più.
– Ma se non sono ancora le undici. E poi se ci fosse tutta sta democrazia qui, io non vivrei in questo posto, in un bunker sottoterra e la musica me la potrei ascoltare come fanno tutti, a che ora voglio e senza essere controllato e disturbato da voi.

Abdou a volte fatica a parlare, Soprattutto quando è preso dall’ansia o quando subisce un torto e si arrabbia. È asmatico e a volte si “dimenticano” di fornirgli lo spray. E Abdou dei medici del centro non si fida: “una volta mi hanno detto che avevo la varicella e mi hanno isolato in un albergo sporco e freddo. Per non contaminare gli altri, m’hanno detto. Ma non era varicella, erano punture d’insetti, quelli che qua ti mordono ovunque. Sai – mi dice con una bozza di sorriso – io non ho paura degli animali. Vengo dal bosco e per arrivare qui ho attraversato mare e deserto. Sette volte ho fatto il viaggio dalla Turchia in Grecia. In un furgone da 5 eravamo in 25. Figurati se ho paura degli animaletti. Vuoi saper perché sono qui da così tanto9? Eh misteri.., piacerebbe saperlo anche a me. Sai, non ho mai rubato, mai spacciato, sempre pagato il biglietto del bus, ma niente. Perché? Perché ci tengono in queste condizioni? Voglio solo una vita normale, se torno indietro o muoio di fame o muoio di un’esplosione o ti uccidono i taleban. Gli americani dovevano liberarci ma stiamo peggio di prima, le donne sono rinchiuse tutto il giorno e non possono fare niente. E là siamo rinchiusi e qua siamo rinchiusi allo stesso modo. In un bunker sottoterra. Che democrazia è questa? Che liberazione è questa?”
Distinti pensatrici e pensatori hanno spiegato dettagliatamente gli effetti mondiali che ha prodotto la conquista dell’America, facendo luce sulle nuove relazioni di dominio e di sfruttamento instauratesi che, non solo hanno prodotto le condizioni materiali per la mondializzazione del sistema capitalista, ma che hanno pure permesso la costruzione dell’europeo come bianco. Come si apprende leggendo il libro Descentrar la mirada, riflessioni attorno ai movimenti sociali da una prospettiva femminista e antirazzista10, nel quale si invita a un cambio di sguardo e prospettiva, analizzando situazioni di esclusione, di razzismo e di nuove forme di colonizzazione, sorte all’interno dei movimenti (occupazioni, feste, collettivi e associazioni per migranti o femministe, ecc.11): se risulta innegabile l’urgenza e la necessità di dotarci di nuovi sguardi e di nuove relazioni, non possiamo tralasciare che anche in spazi che consideriamo “nostri” si possano generare situazioni di chiara esclusione o di privilegi. Situazioni che spesso tendiamo a negare, banalizzando le probabili sensazioni di incomodità e rabbia che certi atteggiamenti possono indurre, in quella che alcunx compagnx “altre” definiscono come “una supposta fragilità bianca che si esprime nell’incapacità di ascoltare l’esperienza “dell’altrx”, questionando, domandando, interrompendo, minimizzando, cercando parallelismi allo scopo di delegittimare chi si ha di fronte con l’obiettivo di rifiutare un certo atteggiamento “razzista”12”.

Houria Bouteldja militante decoloniale franco algerina, autrice de I bianchi, gli ebrei e noi, appena apparso in italiano ed edito da Sensibili alle Foglie, precisa invece che, quando si parla di bianco/a “non si fa riferimento a una pigmentazione o a una localizzazione geografica specifica ma piuttosto a una forma di vedere e di intendere il mondo. Non si tratta di un’identità ma di categorie politiche e sociali”. L’analisi delle compagne, risalendo fino alla modernità da sempre vista come epoca di benessere e di scoperta, ne indaga invece “la faccia occulta, irrazionale e violenta, individuabile nella conquista dell’America e nel processo di classificazione razziale/etnica che costituirà il criterio fondamentale per la distribuzione della popolazione in posizioni, luoghi e ruoli sociali, in una concezione dell’umanità per la quale la popolazione del mondo si differenzierebbe tra inferiori e superiori, irrazionali e razionali, primitivi e civilizzati, tradizionali e moderni”13. E allo stesso modo quando si parla di lotte femministe, ci dicono sempre le autrici, “non menzionare, in queste lotte, una chiara e netta rivendicazione antirazzista, contribuisce a rinforzare l’idea di un femminismo egemonico per cui tutte le donne sono ugualmente oppresse, invisibilizzando tutte le ulteriori forme di razzismo, di esclusione e di oppressione che subiscono le donne così dette di colore”14. Come avverte la militante Sirin Adlbi Sibai “la costruzione di frontiere non è solo esterna ma anche interna”.
“Ero a due metri, forse anche a tre dall’entrata. Avevo solo bisogno di un po’ di sole. Stufo della muffa interna di quelle mura umide e grigie. Sono 7 anni che sto in Svizzera. Sette lunghi anni passati tra centri chiusi, prigioni e ora questo cavolo di bunker. Sì l’italiano l’ho imparato. E penso lo parlo abbastanza bene. No, di libertà nella democratica Svizzera non ne ho avuta tanta. Di momenti gioiosi ne ricordo pochi. Ma sabato alla manifestazione è stato bello. Musica, parole, balli. E gente. Gente di qui. Gente che di solito non vediamo. Gente che ci ha fatto piacere vedere, che ci fa capire che non sempre siamo soli. E sì mi sono piaciute le parole che sono state dette al microfono. Anche noi avremmo voluto dirle. Ma è meglio di no. Perché qui da quando veniamo alle riunioni, da quando partecipiamo agli incontri e ai presidi ci continuano a minacciare. Ci dicono che facendo così il permesso non l’otterremo mai. Che ci sbatteranno fuori. Come hanno fatto di notte con quella famiglia, quella donna coi bambini. Ci vogliono far vivere con la paura. Ci dicono che se non torniamo una sera perdiamo il posto. E che non ci daranno i soldi. Soldi.., si fa per dire, con 3 franchi al giorno che ci puoi fare.. un caffè e il resto mancia. Come? Ah, chi ci dice questa cosa dei soldi? Soprattutto il responsabile del cantone, quello che ci dovrebbe “pagare”. A volte sono andato a lavorare. Chiaro che vorrei lavorare. Ma non ci lasciano. Non ci danno lavoro e se ce lo danno, sempre 3 franchi, all’ora stavolta, ci pagano. È giusto questo per te? E anche il responsabile della Croce Rossa ci minaccia: dormi fuori? Allora niente soldi, mica è un hotel questo. E lo so che non è un albergo. In un albergo paghi e ti trattano bene. Invece hai visto come dobbiamo vivere qui? Una volta mi hanno accusato di avere lasciato del cibo sotto il letto. Se volete mangiare, lo dovete fare negli spazi giusti, non in camera, ci dicono. E chi vuole mangiare in camera? Che poi le cimici si moltiplicano. Trapassano i muri, le cimici. Ma sotto il letto c’era una mela. Una te lo giuro. E mi sa che non era neppure mia. Ma fa niente, di chi era. Fatto sta che glielo dico al responsabile della Croce Rossa, quello sempre incazzato. Insomma glielo dico che non era mia la mela e gli dico anche che le cimici le mele non le mangiano, perché nelle mele non c’è sangue e alle cimici piace il sangue, il sangue umano, non le mele. Lo vuoi vedere il sangue delle cimici? Vieni, entra nel bunker, vieni. Lo vedrai appiccicato al muro. Facciamo tutti così, ormai. Quando le becchiamo le appiccichiamo al muro. Il maledetto sangue delle cimici. Ma dicevo, scusa ho voglia di parlare, che ero a due metri, non di più, forse tre. Seduto proprio a lato dell’entrata del bunker. Sì era una bella giornata di sole, scusa forse l’ho già detto, ed ero in mutande, senza niente, solo in mutande che il mio corpo aveva bisogno di sole. E arrivano questi tre. Agenti. Mi chiedono il documento. E io gli chiedo perché. Perché volete il documento che sono davanti a “casa” e sono in mutande. Dove lo metto sto documento? Nelle mutande? E poi lo sapete che qui non si può vivere senza documento. E comunque qui, visto che sono davanti a “casa” e che sono in mutande e che volevo solo prendere il sole, il documento non ce l’ho. E allora loro mi dicono che in Svizzera senza documento non si può girare e che quindi sono nell’illegalità e che loro un documento vogliono vederlo anzi che a ben pensarci vorrebbero anche vedere se dentro tra le mie cose non ho nascosto della droga perché sappiamo che voi.. Sempre così ti dicono, ogni volta finisce nella droga. Ma quanta droga si consuma qui? E chi la usa tutta questa droga, che stanno sempre a cercarla? Boh, io non so neanche come è fatta sta droga.. Ok, va bene, controllate pure tanto sapete bene che non ho niente, perché pensate che abbiamo sempre qualcosa, perché ci trattate sempre così, fareste la stessa cosa a un ragazzo di qui, lo trattereste alla stessa maniera? Controllano, controllano sempre, sai qualche anno fa mi hanno dato la decisione negativa, tempo 4 settimane per abbandonare il territorio e prendere il volo in Afghanistan ma io ho detto no indietro non torno voglio avanzare mica andare indietro e allora mi hanno preso e mi hanno messo in prigione. In prigione ti dico, solamente perché non sono voluto tornare a casa mia, quella vera intendo, che là mi uccidono e allora a Coira m’hanno messo, 17 mesi rinchiuso e adesso ancora qui sono, da un anno e mezzo in questa altra prigione, in un bunker sottoterra. Ma tu scrivilo che ero solo in mutande e che volevo solo prendere il sole. Okok, va bene gli dico, tranquilli, non arrabbiatevi, entrate il documento ce l’ho, volevo solo prendere un po’ di sole a due metri da casa mia, va bene entrate e cercatela sta droga..
Che succederebbe se noi vivessimo la stessa violenza, gli stessi ricatti, la stessa oppressione vissuta da tante donne e uomini colpevoli di lasciare le proprie terre, come qui si faceva solo 60-70 anni fa?

Sempre un ragazzo di Camorino ci raccontava ad esempio che, chiedendo con una certa insistenza informazioni sulla sua situazione migratoria alla responsabile dell’Ufficio migranti in Ticino, Carmela Fiorini – per intenderci, quella coinvolta nello scandalo Argo1, quella che si faceva pagare, con il compagno Fiorenzo Dadò presidente del ppd, il soggiorno a Bormio dall’allora responsabile di Argo1, ancor prima di ricevere il mandato cantonale del centro di Camorino – gli rispondeva secca: “se non ti piace come funziona qui, puoi sempre tornartene da dove sei venuto”.

Appunto e noi come ci sentiremmo? Che faremmo? Domande urgenti. Anche se quello di cui avremmo bisogno non sono sensi di colpa e vittimismi, ma di solidarietà, di complicità e di lotte. Come quelle fatte davanti ai bunker, come la manifestazione di Bellinzona o le azioni di denuncia a Chiasso e alla Croce Rossa. E confrontarci, tessere legami (nelle lotte), perché è lì che ci si autodetermina, che ci si “integra”, che ci si dà forza e coraggio. E allo stesso modo assumere quei privilegi dei quali beneficiamo come uomini – e donne – occidentali e bianchi. “Domandarsi come sono andate le cose fino ad ora. Assumere che la colonizzazione europea “ha svolto un ruolo di spartiacque nella storia, sia che la consideriamo un “incontro tra culture”, sia che la consideriamo un genocidio senza precedenti”. Domandarsi perché la migrazione continua a essere vista come un “problema” per i paesi “sviluppati”. O perché dopo tanti “sforzi” di amministrazioni e di Ong non si arriva alla tanto bramata integrazione dei migranti. Non sarà invece che molte delle domande che ci facciamo hanno già una risposta? E che magari poco o niente ci interessa interagire15 con l’altro/a, a pari condizioni? O che invece pretendiamo semplicemente che sia soprattutto l’altro/a a riconoscere che ci sono dei valori (i nostri naturalmente) che sono impossibili da cambiare16”?

Una nuova logica colonialista sta impregnando il pensiero occidentale. Una logica che produce la sensazione che nel mondo ci siano vite che valgono più di altre e che esistano dei “selvaggi” che mettono in pericolo i valori di tale civilizzazione. Parte dei nostri “diritti” e delle nostre ricchezze sono frutto della dominazione del “nostro” mondo su infiniti altri. Non si tratta qui di autocommiserarsi o di vendere “esotiche” forme “non occidentali” d’alternativa, ma di generare alleanze e complicità reali, in basso e a sinistra. Disfarci delle cimici del capitale assetate di sangue, questionandoci il posto che occupiamo nel mondo e il luogo dal quale lo guardiamo. Queste alcune delle sfide alle quali non dovremmo sottrarci.
La libertà non si mendica, si conquista.
Libertà.