Italia: lettera aperta su delle scene di ordinaria repressione.

Riceviamo e pubblichiamo questo testo, la testimonianza di una delle quotidiane retate delle forze dell’ordine contro le persone migranti, avvenuta in questo caso in un non luogo come la Stazione Termini di Roma, che ha reso ancora più difficile la creazione sul momento di relazioni di solidarietà e resistenza. “Come si può intervenire in situazioni del genere?”. Consapevoli di una difficoltà reale di intervento che non vogliamo nascondere, ci auguriamo che si apra una riflessione e discussione collettiva sulle pratiche di resistenza e solidarietà con chiunque subisca controlli e rastrellamenti.

Mi è capitato diverse volte di vedere una retata e provare a mettermi in mezzo, ma vederne lo svolgimento e le dinamiche dall’inizio alla fine è decisamente tutt’altra storia. Pochi giorni fa mi trovavo in tarda notte, circa le 4:30, a via Giolitti nei pressi della stazione Termini di Roma quando, sentendo delle urla, mi sono fermata. Di fronte a me, un capannello di persone intorno a tre ragazzi che litigavano così ho deciso di legare poco più lontano la mia bicicletta e andare a vedere cosa stesse succedendo. Nei circa due o tre minuti che ho impiegato in quest’operazione intorno a me, si è creato una sorta di scenario di guerra: una retata. Dapprima 3 volanti alle mie spalle che in un nonnulla sono diventate ben 9 chiudendo da entrambi i lati la strada. A quel punto, le guardie, sono scese dalle macchine e infilati i guanti, hanno iniziato a chiedere i documenti ai ragazzi che litigavano e a tutte le altre persone razzializzate (ossia le persone non bianche che vengono identificate come migranti) che non si erano riuscite ad allontanare prima, accerchiandole. Tutto è stato talmente veloce che non ho capito subito cosa stesse succedendo e così ho iniziato a chiedere alle persone intorno a me. Alcuni mi dicevano non lo so, altri dicevano una rissa ma solo uno mi ha fatto realmente capire cosa stava succedendo. Lo ha fatto urlandomi contro. Mi ha urlato “Bianca di merda”, mi ha detto “Cosa cazzo vuoi? Come ti permetti di venire qui in mezzo a noi e chiedermi come sto? Voi siete senza cuore! Guarda come cazzo ci trattate” e diverse altre cose mentre io, invano, cercavo di dirgli che ero lì per dar loro solidarietà. Lì per lì mi si è spezzato il cuore ma non ho avuto il tempo di riflettere quella sensazione perché un poliziotto, vista la scena, si è avvicinato a noi e rivolgendosi esclusivamente a me ha iniziato insistentemente a chiedere cosa stesse succedendo. Di fronte alla mia ostilità e al mio rigirargli la domanda dicendo che erano loro a star facendo quel macello hanno identificato anche questo ragazzo e me. Nel frattempo alle mie spalle si era aggiunta una camionetta e gli sbirri continuavano a chiedere i documenti alle, per fortuna poche, persone razzializzate che si trovavano in quei pochi metri di strada. Ho visto diversi altri sbirri uscire dalla stazione e altri da chissà dove diventando un discreto numero. L’atteggiamento nei confronti delle persone fermate era estremamente provocatorio ed aggressivo, zaini e borse venivano perquisite senza nessuna cura lasciando, in alcuni casi, cadere le cose a terra. Tutto intorno a me era violenza e sopraffazione. Poco dopo mi hanno ridato i documenti e poi, mi hanno allontanata da questo cerchio di infamità. Sono rimasta inerme, con le lacrime agli occhi, a vederli andar via di fianco alla mia bici. Non saprei quante persone hanno portato via. Poche, credo. Ecco che il modello nord europeo di intervento in strada è giunto a noi. Vorrei poter descrivere l’intensità e la velocità della violenza delle retate ma, come quell’uomo mi ha urlato a gran voce, non è la mia storia, non è la mia oppressione. Quello che quell’uomo diceva è vero: io vivere la strada senza documenti non lo so cosa vuol dire. Troppo spesso ci dimentichiamo che il fatto di riconoscere il nostro privilegio di bianchi e occidentali, non lo fa scomparire né lo depotenzia. L’unica cosa che mi sento di poter fare è una costante pratica di non attuazione del potere che il mio privilegio mi dà ma comunque resta che lo ho.

Dunque, quale può essere il mio contributo di affiancamento alla lotta delle persone razzializate? Preso in considerazione il fatto che ti ci trovi in mezzo d’improvviso per caso magari mentre sei sola, com’è successo a me in questo caso, come si può intervenire in situazioni del genere? Come si affronta la diffidenza che genera un bianco che giunge lì, di fatto come un alieno, dicendo di voler dare solidarietà? Nelle nostre ipotesi più rosee cosa ci aspettiamo che possa determinare il nostro intervenire in una retata? Quale prospettiva di lotta crediamo ci possa aprire l’approcciarci fisicamente a queste esperienze di resistenza?

Una compagna transfemminista e anarchica in cerca di complici