Niente è cambiato, tutto cambierà

Di Akubitea, aprile 2020

Le emergenze agiscono come una specie di catalizzatore di rapporti, convinzioni, pregiudizi, immaginari, visioni del mondo acquisite spesso inconsapevolmente e che una scossa inaspettata porta all’improvviso davanti agli occhi. Si scoprono la fragilità, la dipendenza degli uni dagli altri, la perdita repentina di un privilegio, il capovolgimento di gerarchie, valori e poteri ritenuti immodificabili, la presenza inaggirabile

Le emergenze agiscono come una specie di catalizzatore di rapporti, convinzioni, pregiudizi, immaginari, visioni del mondo acquisite spesso inconsapevolmente e che una scossa inaspettata porta all’improvviso davanti agli occhi. Si scoprono la fragilità, la dipendenza degli uni dagli altri, la perdita repentina di un privilegio, il capovolgimento di gerarchie, valori e poteri ritenuti immodificabili, la presenza inaggirabile del nostro essere corpo. Una condizione umana che accomuna tutti diventa, al medesimo tempo, il rilevatore più potente di differenze – di genere, razza, classe, specie- che ci sono sempre state e che hanno potuto sottrarsi alla coscienza solo perché date come “naturali”. Ma, soprattutto, quello che viene allo scoperto è come la civiltà, che ha avuto per protagonista un sesso solo, abbia finalizzato le sue mete ad esorcizzare quel limite di tutti i viventi, che è la morte, inscritta fin dalla nascita nei loro corpi.

Lea Melandri, Ricordati che devi morire, Il riformista, 14 marzo 2020

Sono trascorse più di due settimane da quando l’Italia è stata dichiarata zona rossa, il che, per noi che scriviamo, ha rappresentato per lo più l’opportunità di riflettere, leggere, ascoltare, interrogarsi. Queste pagine hanno preso forma nel corso di giornate trascorse prevalentemente dentro le 4 mura che abbiamo il privilegio di abitare e possono considerarsi il frutto di tante voci e riflessioni. L’intento è di contribuire a far fiorire quel giardino di idee e spunti d’azione che sentiamo – virtualmente – crescere ogni giorno. I concetti non sono particolarmente nuovi, ma crediamo che si offrano a noi nella possibilità di essere analizzati da punti di vista “altri”.

Partiamo dal concetto di “nuovo”, perché sicuramente non è nuovo il succedersi delle “crisi” del sistema patriarcal-capitalista. Quello che (ora) impone la ricerca di soluzioni collettive per auto-salvarsi (e assolversi). Così come non lo è neppure la risposta degli stati nazione.

La gestione di quel che il propagarsi di questo virus sta determinando nei paesi del vecchio continente, potrebbe essere emblematica del fatto che, mentre (alcuni) settori insospettabili del sistema – come parte di quello economico – si trovano a non più a essere privilegiati (non tout court, ma in generale), altri – come quello che fa capo al meccanismo “paura-controllo”, si rafforzano. Il principio secondo il quale “se l’Italia (l’Europa) devono bloccarsi affinché tutti e tutte si releghino in casa, allora non devono esserci persone costrette a lavorare o a rimanere nelle prigioni statali e nei centri di detenzione per migranti”, dovrebbe essere sacrosanto e automatico. Così pure come ricentrare le lotte verso la tutela di chi non può rimanere a casa, di chi una casa non ce l’ha o verso la requisizione della sanità privata a favore della collettività.

Eppure – ancora una volta e come si poteva sospettare – il tutto non sembra altro che l’evidenzia della natura capitalista, razzista, sfruttatrice, repressiva e classista del sistema di gestione della crisi. Perché a rimanere esclusi da questo improvviso cambio di paradigma – in cui gli untori e le untrici diventiamo noi – rimangono comunque sempre le stesse e gli stessi. Quelle e quelli da altri definiti come l’umanità in esubero.

Una terra di confine è un luogo vago e indeterminato creato dal residuo emotivo di un confine innaturale. È in un continuo stato di transizione. Il proibito e il vietato sono i suoi abitanti.

(Gloria Anzaldua, Borderlands / La Frontera: The New Mestiza)

Partiamo dal presupposto che, se quello che stiamo vivendo determinerà una sorta di spartiacque storico, quello a cui stiamo già assistendo – senza prestargli troppa attenzione – è un vero e proprio cambio di paradigma.

Per capire a cosa ci riferiamo pensiamo sia emblematico il caso raccontato da Giovanna Procacci nell’articolo “Qual è la vera epidemia? Noi e gli altri” (https://volerelaluna.it/societa/2020/03/06/qual-e-la-vera-epidemia-noi-e-gli-altri/) con la vicenda della Sea Watch a Messina e il tentativo di sbarco di 194 naufraghi. A cui seguì l’ordine di tenere in quarantena per due settimane gli occupanti della nave per evitare la diffusione del virus. Per lo stato italiano erano i viaggiatori e le viaggiatrici a essere “pericolosi”, mentre gli stessi occupanti della nave erano – giustamente – preoccupati di sbarcare in Italia vista la diffusione della malattia che in Africa ancora non era arrivata. Ingenuamente, pensavano che li si volesse proteggere dal rischio d’infezione: solo dopo hanno capito – cambio di paradigma – che li si metteva in quarantena perché si sospettava che il virus lo portassero loro!

Chi diventa l’untore di chi, allora?

Soprattutto ora che il virus comincia a diffondersi in tutto quello che definiscono terzo mondo, come ci porremo, noi, di fronte all’ennesima possibile catastrofe? Perché se qui, in questo paese, cerchiamo di essere tutt* brav* cittadin* e non uscire di casa, nel mondo gli stess* rispettabil* cittadin* continuano comunque a viaggiare verso quei paesi meta di vacanze o viaggi di lavoro. Perché se qui ci hanno detto che dobbiamo rinchiuderci in casa per contenere il contagio e per non premere sul sistema sanitario, proviamo a immaginare quali potrebbero essere le conseguenze in società dove questo sistema non esiste o continua a essere il prodotto di un sistema classista e razzista, dove si sopravvive con pochi spicci al giorno, dove l’economia informale e di strada è parte fondamentale del tessuto sociale e degli scambi o dove già si vive una situazione d’apartheid come a Gaza. Inizieremo quindi finalmente a ripensare i “nostri” rapporti con questi mondi su cui continuano a gravare dinamiche colonizzatrici, di saccheggio, di esproprio e di devastazione?

E se, dall’inizio della pandemia, ogni Nord occidentale ha continuato imperterrito a invocare chiusure, frontiere, eserciti per le strade, ora, chi le frontiere le ha iniziate effettivamente a “chiudere” per proteggersi dall’untore bianco, sono “gli/le altr*”.

Altrettanto vero è che, lì dove le realtà auto-organizzate e le autonomie esistono davvero, non si aspettano le misure dei mal governi. Le compagne e i compagni della Primera Linea in Cile (http://revistadefrente.cl/comunicado-de-alianza-de-grupos-de-la-primera-linea-sobre-situacion-por-coronavirus/ ), prima che il “presidente” Piñera decretasse lo “stato d’eccezione costituzionale per catastrofe”, avevano già responsabilmente deciso di rinunciare temporaneamente alle strade, teatro da mesi delle loro rivendicazioni conflittuali. Così come le compagne e i compagni dell’EZLN, che sono intervenut* per prevenire la diffusione del virus, chiudendo tutte le comunità e i caracoles – senza smettere di lottare (http://enlacezapatista.ezln.org.mx/2020/03/16/por-coronavirus-el-ezln-cierra-caracoles-y-llama-a-no-abandonar-las-luchas-actuales/) –, mentre il presidente messicano invitava a continuare ad abbracciarsi per impedire al virus di diffondersi.

Ma anche al di là degli esempi più noti, ovunque pre-esistevano realtà comunitarie, la risposta all’emergenza sanitaria è stata da subito intesa come emergenza “sociale” e sono state messe in campo quelle risorse che, da sempre, permettono a certe comunità di sopravvivere secondo una logica – quella del buen vivir – per cui la “salute” non è un concetto astratto o autonomo rispetto ad altri aspetti della vita, così come la vita non è altra cosa rispetto alla morte. Là dove la vita collettiva è organizzata sulla base dei saperi di popoli che hanno resistito all’omogeneizzazione mortifera del capitalismo, le collettività non hanno probabilmente dovuto fermarsi a riflettere sul “come” autodifendersi dal virus e da tutto ciò che politicamente sta implicando per loro. Hanno semplicemente rafforzato le proprie, già esistenti, autodifese collettive per il benessere di tutti e tutte.

In altre geografie, come al confine turco-greco, va invece in scena la calata della destra nazi-fascista e il respingimento armato diretto alla popolazione di migranti usati come alfieri pregiati nella complessa scacchiera del rompicapo geopolitico mondiale, in cui ogni elemento si palesa sempre più per quello che è ed è sempre stato: la IV guerra mondiale era già cominciata, ci avvertivano nel lontano 1997, dalle montagne del sud-est messicano… (https://camminardomandando.wordpress.com/quaderni/subcomandante-marcos-le-sette-tessere-ribelli-del-rompicapo-globale-la-iv-guerra-mondiale-e-cominciata/).

Mentre in queste di geografie, chi pagherà il prezzo più caro? Non sono forse le lavoratrici e i lavoratori migranti – molto più facilmente ricattabili per stipendi e permessi di soggiorno – coloro che andranno, temporaneamente, a mantenere il livello di produzione accettabile nei magazzini, nei capannoni, nei cantieri, nelle case di cura, così da non diminuire esageratamente gli incassi di padroni e impresari, “impossibilitati” dal fermare tutto? O non saranno forse tutte quelle persone già private della propria libertà che, sia nelle patrie galere, nei CPR, negli istituti psichiatrici o in tutti quei luoghi insalubri, disumani, inaccessibili e indegni, a risentire ancora più di questa situazione, rimanendo completamente silenziati in quei luoghi oggi ancor più inaccessibili e con il divieto ulteriore di comunicare con l’esterno?

Sicuramente, nel perdurare della guerra di classe, di genere e di razza, ora, nella diffusione della malattia, sarà una violenza ancora più estrema quella che si insinuerà, infima e subdola nelle maglie già indebolite della macchina.

Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono,

Ciechi che, pur vedendo, non vedono.

Manuel Saramago, “Cecità”

Nelle “risposte” altalenanti e contraddittorie degli stati nazione di fronte al dilagare della malattia, quella che si palesa è la crescente militarizzazione e l’incapacità chiara di gestione della malattia.

Dopo anni di sperimentazioni, di esercitazioni in caso di catastrofe, di organizzazioni per città “sicure” (Urban Nato 2020), di esercitazioni contro possibili invasioni, contro possibili rivolte, contro guerre nucleari e nubi tossiche, l’unica risposta che il sistema è riuscito a generare per contenere una simile epidemia è quella dello “state tutti e tutte a casa” e della “distanza sociale”?

Gli esperti dell’OMS da anni già annunciavano il possibile diffondersi di una pandemia (e ci siamo andati vicino con SARS e h5n1) e un rapporto del 2019 del Global Preparedness Monitoring Board della Banca Mondiale riferiva di “un rischio molto reale di una pandemia veloce e altamente letale causata da un patogeno in grado di colpire le vie respiratorie”. (https://www.ondarossa.info/redazionali/2020/03/coronavirus-origini-effetti-e ).

Ma, inspiegabilmente, in Occidente l’ultima simulazione di pandemia sembra sia stata in USA nel 2001 (Dark Winter Exercise) e poco o niente è stato fatto nel frattempo. Non dimentichiamo neppure che, dalla fine del 2017, a Wuhan, è operativo un laboratorio, progettato e costruito con l’aiuto della Francia (…) in grado di gestire con il massimo contenimento gli agenti patogeni più pericolosi del mondo, nell’ambito di un accordo di cooperazione del 2004 per la prevenzione e il controllo delle malattie infettive emergenti.

Ora, senza voler entrare nel complottismo (su cui comunque ci sarebbe da discutere, dato che il sistema in cui viviamo ne giustifica per natura l’esistenza, utilizzandolo quando gli fa comodo) non possiamo non segnalare una completa e inaccettabile impreparazione dei governi mondiali. Impreparazione che ripiomba direttamente e pesantemente su corpi, vite e territori di tutta una fetta di popolazione costretta, da una parte a continuare a produrre e a “sanare” in situazioni inaccettabili, e dall’altra a un coprifuoco permanente, visto la totale mancanza di soluzioni e il vuoto sanitario-sociale lasciato da anni di devastazioni neoliberiste.

Appunto, ora, l’urgenza si sta spostando nei divieti e nel delirio #iorestoacasa in chiave securitaria e criminalizzante. Parchi chiusi, pressioni su un presunto divieto di correre e andare in bicicletta e fare esercizio, gestione dell’ordine pubblico in chiave poliziesca e superpoteri conferiti a guardie e militari: la vecchia e cara politica di diffusione e controllo della paura paga sempre. Paralizzare la gente, instaurando il dubbio su cosa si può o meno fare. Far leva sul senso di colpa collettivo, tornando a compiere il ciclo del terrorismo di stato. Con un nemico (il virus, attraverso i nostri corpi) e le leggi per proteggerci (nuove ma sempre gli stessi i suoi esecutori, com’era già stato per la strategia sul “degrado” urbano nell’ultima decade). Ora andrà in scena la normalizzazione di tutto ciò, e i bravi patrioti già iniziano ad apprezzare, contribuendo, tra canti e segnalazioni, al corretto funzionamento del meccanismo.

Fino a qui tutto bene”, ammoniva la voce fuori campo su schermo nero, nel film francese “La Haine”. E sarà “l’atterraggio e non la caduta” a fare la differenza.

Certo. Fino a qui #Tutto andrà bene.

Ins’hallah!

*

– Documenti!

Senza buongiorno o buonasera, la volante nera si ferma proprio davanti a me.

La bicicletta al lato, gli ultimi raggi di sole della giornata. Ponte Sublicio, Roma Sud. (Casa sta proprio un po’ più in là, in fondo alla via).

– Sto telefonando, mo’ me ne vado.

– Cosa cosa, pensi di cavartela così? Che è “sto telefonando”? Documenti e autocertificazione! E veloce.

Sbuffo, rispondo, ne nasce una discussione. Tesa, assurda, senza senso.

Non si smuovono. Duri e imbruttiti, ribadiscono: – Allora? Documenti e autocertificazione.

E che palle, sti cazzi, adesso la faccio… mormoro girandomi.

Quello alla guida esce dalla macchina. Mi si fa sotto, a muso duro, minaccioso, aggressivo: – sti… cosa? Sti… cosa? Abbozzo un minimo di reazione. Mi fanno capire che il limite è sottile, che è meglio finirla lì: – Ci frega niente della situazione. Stiamo lavorando noi e in giro non ci devi stare!

Scrivo l’autocertificazione, fornisco un documento. Aspetto. Il sole comincia a calare. Da dentro la macchina l’ennesima minaccia: – e pure una denuncia per falsa dichiarazione mo ti becchi!

– Scusa?

– Qui scrivi che te ne stavi tornando a casa, mentre invece te ne stavi bello, bello seduto sul ponte.

(…)

– Nome dell’avvocato?

-Non ce l’ho.

– E perché?

– Come perché? Che c’è? Sto in bicicletta, seduto su un ponte, a telefonare prima di tornarmene a casa e devo avere un avvocato? No, non ce l’ho!

– Comincia a preoccuparti allora, vedrai che ti servirà!

La situazione è surreale. Il tentativo di alzare la tensione reale.

Passa quasi un’ora. Tra la compilazione delle due copie del “Verbale di identificazione” e vari tentativi di chiamare la centrale “per ulteriori informazioni” (andati più o meno a vuoto, linee in sovraccarico, chissà..). Quello al telefono, strappa un foglio, lo accartoccia, lo getta. Nervoso. Poi ne prende un altro e ci scrive appunti, dati. Fotografa la carta d’identità da ambe parti.

Il sole ormai scompare. Comincio a farmi qualche pensiero. Strade vuote, una pattuglia di carabinieri che mi controlla, altre che passano, si accostano, ridacchiano. E io solo, su strade deserte, con una bicicletta a ridosso di un ponte. Con comunque il privilegio di un documento.

Poi d’un tratto, tutto finisce. Quello al telefono si stanca di chiamare e firmano entrambi il verbale. Me lo fanno firmare e quando esce per consegnarmelo, quasi mi tossisce addosso. E – chiaramente – non rispetta le distanze. Glielo faccio notare.E vedi di non fare lo spiritoso, mi risponde spazientito. Leggo il verbale, firmo le due copie e, senza uno sguardo, minacciosamente mi intima: – e mo’ tornatene a casa, subito!

Non cambieremo i nostri stili di vita!”.

A questo esortavano, dopo l’attacco al Bataclan, i presidenti che si ritrovavano a marciare in Place de la République a Parigi. E mentre si metteva in pratica il dispiegamento di forza militare già previsto e preparato anni addietro (e che di fatto andava a cambiare il nostro stile di vita), ci suggerivano di non rinunciare ai cardini su cui tuttora ruota il sistema: consumo, produzione, sfruttamento e militarizzazione.

L’esito di una storia già vista, i cui risultati sono già noti.

*

Forse per una sensuale curiosità molecolare, sicuramente per un appetito insaziabile, la tentazione irresistibile di abbracciarci l’un l’altra è il motore che fa girare la vita e la morte sulla Terra. Le creature si penetrano a vicenda, si riavvolgono l’una attorno all’altra e l’una attraverso l’altra, si mangiano, si fanno indigestione, si digeriscono in parte e in parte si assimilano a vicenda, e così definiscono degli ordini simpoietici altrimenti noti come cellule, organismi e assemblaggi ecologici (…) Le creature non precedono le loro relazioni, si creano a vicenda attraverso il coinvolgimento di materiale semiotico, a partire dagli esseri precedenti a tali coinvolgimenti.

Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto”, Donna J. Haraway

Ritornano alla mente gli insegnamenti di quella scienza viva nella pratica rivoluzionaria di migliaia di persone che abitano i luoghi teatro della quarta guerra mondiale ormai in corso da vari anni, che si chiama jineoloji, secondo cui la concezione graduale e di avanzamento progressivo della storia è una concezione puramente occidentale. Coloro che si identificano nel movimento di liberazione del popolo curdo, invece, pensano alla storia in termini circolari, in cui non c’è un “prima” e un “dopo”, un “vecchio” e un “nuovo”, ma un alternarsi nel tempo di resistenze che determinano il riaffiorare di intelligenze collettive. Per cui la capacità precapitalista, prepatriarcale, prestatale e preimperialista di ciascuna comunità di vivere in armonia con i propri corpi e la natura che li circondava, continua a riaffiorare in questo tempo ciclico: nella forza curativa dei femminismi, nelle grida di sopravvivenza e libertà che affiorano dalle carceri, nella determinazione troppo spesso inascoltata dei e delle viandanti del mondo.

Perché la verità, banale com’è il male che la genera, è che il patriarcato ha fatto e continua a fare più morti per femminicidi del coronavirus, che il razzismo è più contagioso di qualsiasi malattia virale e che l’indifferenza toglie la vita in modi assai più disumani di questa pandemia.

Non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema

Cile 2020, scritta su un muro

Come ci prenderemo quindi cura delle nostre devianze, solitudini, depressioni? E soprattutto, condividiamo questo desiderio diffuso, che da balcone a balcone, si propaga per le strade ormai quasi deserte di ritorno alla “normalità”? Quando è forse proprio questa normalità l’origine del problema? Normalità sistemica. Produttiva, di consumo, d’indottrinamento, di addomesticazione, di respingimento, di isolamento? O sarà che, dopo aver beneficiato di tutti i privilegi di un sistema e al sopraggiungere di una “nuova” normalità, saremo forse tutte e tutti costrette a riformulare le priorità delle nostre vite esclusive? Che all’improvviso ci ritroveremo tutte e tutti a far parte di quel mondo che sopravvive con pochi spicci al giorno? Che il livello di vita e di consumi delle nostre vite dovrà subire un ridimensionamento importante?

E proviamo a immaginare come sarebbero andate le cose se avessimo avuto, fin da prima dell’arrivo del Covid 19, una responsabilità in più sulle nostre “autonomie”. Già prima del virus, le nostre esistenze soffrivano di vari gradi di isolamento, il nostro desiderio di vivere e stare insieme era uno di quei desideri perennemente disattesi dall’incapacità collettiva diffusa di immaginare (e quindi realizzare) una vita ad esempio fuori dal contesto urbano, fuori da quel luogo in cui anche solo conseguire un misero stipendio si trasforma nella gestione perenne di continue crisi. Ci viene in mente che, proprio per queste crisi che da tempo ingombrano lo spazio tempo delle nostre esistenze, non riuscivamo a organizzarci in azioni di reale solidarietà verso quei pirati e quelle piratesse che, migrando, sfidavano la barbarie della logica dei confini inespugnabili di un vecchio continente in putrefazione che oggi offre loro solo ulteriore olvido

E allora, se la normalità è quel “nulla che avanza” inesorabilmente, costruire territori “altri” e autonomi dovrebbe tornare a essere agenda quotidiana delle nostre realtà. In un contesto continuo di “distruzione/spopolamento” e di “ricostruzione/riordinamento”, ciò che appare sempre più evidente è l’annichilimento di tutto quel che da coesione a una società: le sue molteplici identità collettive, i suoi legami di solidarietà, le diversità arricchenti, le sue forme autonome di organizzazione e produzione.

Ecco quindi, ora, davanti a noi, lo spazio di un potenziale rinascimento che si propaga dall’epicentro virale. Cerchiamo di riempirlo con intelligenza emotiva, creatività e immagin-azione, con la consapevolezza crescente che niente sarà più come prima e che tutto dovrà cambiare. Perché, come in qualsiasi altro “momento di crisi”, come ci ricordano le compagne curde (https://www.youtube.com/watch?v=R4tjZOXUUKE), oggi ci si dispiega davanti l’occasione per ripensare il nostro agire. In relazione a chi normalmente si gira dall’altra parte – e che probabilmente inizierà ad aprire un po’ più le orecchie, se davvero gli si chiederà di rinunciare permanentemente agli ultimi “imbellettamenti” del sistema- ; in relazione a chi non è ancora riuscito a trovare nei movimenti possibilità in grado di contenere i suoi sogni; ma soprattutto in relazione a noi stess*, che da oggi dovremmo iniziare a ripensarci come organismi interdipendenti da allenare alle lotte sinergiche e alla rottura di tutti quei privilegi che ancora non permettono un’effettiva eguaglianza di autodeterminarsi autonomamente – al di fuori della mannaia repressiva – nella libera possibilità di decidere dove e come vivere, abitare, muoversi, lavorare… Per poter così rischiare insieme quel che oggi ci costringe a casa – e che scambiamo per buonsenso – in luogo di un tentativo di libertà e di rottura di qualsiasi gabbia.

AkubIteA

Consigli sonori per le letture:

– Sara Hebe – Acab

– Vivir Quintana, Mon Laferte y el Palomar – Cancion sin miedo

– Dire Straits – Sultan of Swing

– Velvet Underground – Pale blue eyes

– Dooz Kawa – Les loups des steps

– David Bowie – Blackstar

– Area – Gioia e rivoluzione

– Tribade – Purga

– Dori Ghezzi – Margherita non lo sa

– Pierangelo Bertoli – Maddalena

– Pixies – Monkey gone to heaven

– Liberato – Gaiola Portafortuna

Los Ángeles Azules – Nunca Es Suficiente ft. Natalia Lafourcade (Live)

– Iron Maiden – 666 the number of the beast

– Coez – La musica non c’è

– Grupo Cañaveral De Humberto Pabón – Tiene Espinas El Rosal ft. Jenny and the Mexicats (Live)

– Charles de Gaulle – Exposition

– Il teatro degli orrori – A sangue freddo

– Mula – Nunca paran

– Uno sparo nella notte (audiodocumentario sulla morte di Davide Bifolco) https://napolimonitor.it/uno-sparo-nella-notte-un-documentario-sulla-morte-davide-bifolco/

Consigli letterari per le suonate:

– Archivio dei bambini perduti – Valeria Luiselli

– Lo spirito della fantascienza – Roberto Bolaño

– Future. Il domani narrato dalle voci di oggi, a cura di Igiaba Scego

– Zami, mitobiografia di Audre Lorde

– El futuro ya fué. Una critìca a la idea del progreso en las narrativas de liberacìon sexo-generica y queer identitarias en Abya Yala – Yuderkys Espinosa Miñoso

– Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto – Donna J. Haraway

– Cecità – José Saramago

– 38 estrellas. La mayor fuga de una càrcel de mujeres de historia – Josefina Licitra

Consigli visivi che ce stanno sempre:

Selfie – Agostino Ferrente

– Alla mia piccola Sama – Waad al-Kateab ed Edward Watts

Seberg – Benedict Andrews

– Sex Education (serie tv) – Kate Herron e Ben Taylor

– L’isola dei cani – Wes Anderson

– Guerrilla (serie tv) – John Ridley

– Snowpiercer – Bong Joon ho

– Castaway on the moon – Lee Hae-jun

– Aquarius – Kleber Mendonça Filho

– Indivisibili – Edoardo De Angelis