Disobbedienza, per colpa tua, sopravviverò

María Galindo Cofondatrice del movimento boliviano anarco-feminista Mujeres Creando

Articolo PDF(Testo pubblicato originariamente su Radio Deseo e ceduto da María Galindo a #Apocaelipsis)

Ho il coronavirus perché, anche se sembra che la malattia non sia ancora entrata nel mio corpo, le persone che amo ce l’hanno; perché il coronavirus sta attraversando città che ho attraversato nelle ultime settimane; perché il coronavirus ha cambiato – con uno schiocco delle dita, come si trattasse di un miracolo, di una catastrofe, di una tragedia senza speranza – assolutamente tutto. Ovunque vai c’è, dove arrivi è già arrivato e niente può essere pensato o fatto oggi senza il coronavirus di mezzo. Sembra che non solo io abbia il coronavirus, ma che ce l’abbiamo tutte, tuttu, tutti; tutte le istituzioni, tutti i paesi, tutti i quartieri e tutte le attività.

Ciò che è chiaro è che il coronavirus, più che una malattia, sembra essere una forma di dittatura mondiale multigovernativa poliziesca e militare.

Il coronavirus è una paura del contagio.

Il coronavirus è un ordine di confinamento, per quanto assurdo possa essere.

Il coronavirus è un ordine di distanza, per quanto impossibile possa essere.

Il coronavirus è un permesso per sopprimere tutte le libertà, che a titolo di protezione si estende senza diritto di replica né messa in discussione.

Il coronavirus è un codice di qualificazione delle cosiddette attività essenziali, dove l’unica cosa consentita è andare a lavorare o lavorare in telelavoro come segno che siamo vivx.

Il coronavirus è uno strumento che sembra efficace per cancellare, minimizzare, nascondere o mettere tra parentesi altri problemi sociali e politici che avevamo concettualizzato. Improvvisamente e per magia scompaiono sotto il tappeto o dietro il gigante.

Il coronavirus è l’eliminazione dello spazio sociale più vitale, più democratico e più importante della nostra vita: la strada, quel fuori che virtualmente non dobbiamo attraversare e che in molti casi era l’unico spazio che ci rimaneva.

Il coronavirus è il dominio della vita virtuale, devi essere collegata a una rete per comunicare e saperti parte della società.

Il coronavirus è la militarizzazione della vita sociale.

È la cosa più vicina a una dittatura dove non ci sono informazioni, se non in quantità calcolate per produrre paura.

Il coronavirus è un’arma – apparentemente legittima – di distruzione e di proibizione della protesta sociale, dove ci viene detto che la cosa più pericolosa è riunirsi e incontrarsi.

Il coronavirus è un’arma, apparentemente legittima, di distruzione e di proibizione della protesta sociale, dove ci viene detto che la cosa più pericolosa è riunirsi e incontrarsi.

Il coronavirus è la restituzione del concetto di frontiera alla sua forma più assurda; ci viene detto che la chiusura di una frontiera è una misura di sicurezza, quando il coronavirus è all’interno e tale chiusura non impedisce l’ingresso di un virus microscopico e invisibile, ma piuttosto impedisce e classifica i corpi che potranno entrare o uscire dalle frontiere.

L’area Schengen, da dove il coronavirus si è diffuso in questa parte del mondo – dove vivo – chiude i suoi confini alla circolazione dei corpi al di fuori di quello spazio e finalmente realizza il sogno fascista che glx altrx sono il pericolo.

Il coronavirus potrebbe essere l’Olocausto del XXI secolo per generare uno sterminio massiccio di persone che moriranno e stanno morendo, perché i loro corpi non resistono alla malattia e i sistemi sanitari le, lu, li hanno classificati secondo una logica darwiniana come parte di coloro che non hanno alcuna utilità e per questo devono morire.

Appaiono milioni di euro per il salvataggio delle loro economie coloniali per liquidare gli affitti, le bollette, gli stipendi, quando a tutta questa massa proletarizzata gli sta venendo meno il cielo, dicendo loro che non c’è come pagare il debito sociale. Ora che sono spaventati a morte, obbedienti e confinati, li ricompensano con la dolce consolazione di liquidare i loro conti, dopo aver saldato quelli che contano, che sono quelli delle corporazioni e degli Stati.

I “socialisti”, come quelli che governano la Spagna, parlano di una guerra che vinceremo tutti insieme. Gli piace la parola, credono che serva a fare corpo comune e a fare della malattia il presunto nemico ideale che ci unisce. Non c’è niente di più fascista che dichiarare una guerra contro la società e contro la democrazia approfittando della paura delle malattie. Non c’è niente di più fascista che fare delle case della gente le loro prigioni di reclusione. Niente di più neoliberale che proclamare “il si salvi chi può”, come soluzione di tutela.

E cosa succede quando il coronavirus attraversa il confine e raggiunge paesi come la Bolivia?

Cominciamo col dire che qui il coronavirus era già aspettato alla porta dal dengue, che sta uccidendo ai tropici – senza titoli sui giornali – persone malnutrite, le wawas (bambinx) e coloro che vivono nelle insalubri zone suburbane. La febbre dengue e il coronavirus si sono salutati e al loro lato già c’erano la tubercolosi e il cancro, che in questa parte del mondo sono condanne a morte.

Gli ospedali costruiti per lo più all’inizio del XX secolo con il boom dello stagno (elemento chimico un tempo presente in grandi quantità nelle miniere boliviane, ndr) – poi modernizzati, negli anni settanta, con l’ascesa della politica dello “sviluppo” – sono baracconi crollati molto tempo fa e dove la cattiva abitudine di curare le persone è sempre passata da quanto denaro si dispone per pagare per le medicine, tutte importate e non pagabili.

Il coronavirus entra e arriva sugli aerei, non quelli turistici, ma quelli delle nostri esuli del neoliberismo che hanno costruito ponti d’affetto che fan sì che vengano a visitare sconosciuti che chiamano figli, fratelli o padri.

Arrivano con doni e con corpi infetti, ma la malattia non arriva solo nel loro corpo, arriva anche in prima classe, arriva perché deve arrivare, proprio così. Sembra incredibile che si debba fare appello al buon senso e dire loro che non si possono chiudere i confini, così come non si può mettere un tetto sopra il sole, o un muro sopra le montagne, o porte nella giungla.

È arrivata in mille luoghi, ma è stato il corpo di uno dei nostri esiliati dal neoliberismo ad essere stigmatizzato e maltrattato come “la portatrice”, anche se lei e nessun’altro è stata chi ha mantenuto questo paese e lo è tuttora. I parenti dei malati si organizzano per non farla ricoverare a causa del panico, perché prima che il coronavirus arrivasse in un corpo, era arrivato sotto forma di paura, di psicosi collettiva, di istruzioni di classificazione, di istruzioni di stare lontano.

L’ordine coloniale del mondo ci ha trasformati in idioti capaci solo di ripetere e copiare.

Private e privati del pensiero, nel caso boliviano, la presidente decide di copiare pezzi del discorso e delle misure del presidente della Spagna e, leggendo in “telepronter”, lancia un pacchetto di misure come se fosse seduta a Madrid e non a La Paz. Parla di una guerra che deve essere vinta insieme e degli impresari con i quali si metterà d’accordo, lancia un coprifuoco e colleziona divieti.

L’unica cosa diversa nel suo discorso è il ricorso alla cooperazione internazionale, la ben nota mendicità in cui sguazziamo per avere tutto, dalle mascherine alle idee, una volta che ne siano avanzate.

L’unica cosa diversa nel suo discorso è che qui non ci sono eccedenze, né migliaia – tanto meno milioni – di euro con cui pagare le bollette. Qui la condanna a morte era già scritta prima che il coronavirus arrivasse con un aereo turistico.

Mentre aspetto un’epifania che ci chiarisca ciò che dobbiamo fare e che, sono sicura, entrerà dal corpo debole e febbricitante e ce lo rivelerà, mentre mi dedico, con le mie sorelle, a disobbedire alla proibizione di fabbricare gel artigianale autoprodotto per venderlo – perché anche noi dobbiamo sopravvivere -; mentre cerco i miei libri di medicina ancestrale per produrre una pomata respiratoria antivirale, come quelle che facevamo quando “Mujeres Creando” era una farmacia popolare in una zona periferica della città, penso all’assurdo.

Ora che c’è il coprifuoco, è proibito sussistere a tuttx colorx che vivono con il lavoro di notte?

La società boliviana è una società proletarizzata, senza salari, senza lavoro, senza industria, dove la maggior parte sopravvive nelle strade in un gigantesco e disobbediente tessuto sociale. Non una sola delle misure copiate si adatta alle nostre reali condizioni di vita, non solo per i debiti, ma per la vita stessa. Ognuna di queste misure, copiate da economie che non hanno nulla a che fare con la nostra, non ci proteggono dal contagio, ma pretendono piuttosto di privarci di forme di sussistenza che sono la vita stessa.

La nostra unica reale alternativa è ripensare il contagio.

Coltivare il contagio, esporsi al contagio e disobbedire per sopravvivere.

Non si tratta di un atto suicida, ma di buon senso comune.

Ma forse in questo senso comune si trova il significato più potente che possiamo sviluppare.

Che succede se decidiamo di preparare il nostro corpo al contagio?

Che succede se assumiamo che ci contageremo sicuramente e se partiamo da questa certezza elaborando le nostre paure?

Che succede se, di fronte all’assurda, autoritaria e idiota risposta dello Stato al coronavirus, formuliamo l’autogestione sociale della malattia, della debolezza, del dolore, del pensiero e della speranza?

Che succede se prendiamo in giro le chiusure delle frontiere?

Che succede se ci organizziamo socialmente?

Che succede se ci prepariamo a baciare i morti e a prenderci cura delle vive e dei vivi al di fuori dei divieti, dato che l’unico che stanno producendo è il controllo del nostro spazio e della nostra vita?

Che succede se passiamo dall’approvvigionamento individuale, ai pranzi popolari, comuni, contagiosi e festosi, come spesso abbiamo fatto?

Diranno ancora una volta che sono pazza e che la cosa migliore è obbedire all’isolamento, alla reclusione, al non contatto e a non contestare le misure quando, la cosa più probabile è che tu, la tua amante, la tua amica, la tua vicina, tua madre, sarete contagiate.

Diranno ancora una volta che sono pazza, dal momento che sappiamo che in questa società non ci sono mai stati i letti d’ospedale necessari e che se busseremo alle loro porte, proprio lì moriremo, implorando.

Sappiamo che la gestione della malattia sarà per lo più a casa, prepariamoci socialmente a questo.

Che succede se decidiamo di disobbedire per sopravvivere?

Dobbiamo nutrirci per aspettare la malattia e cambiare la nostra dieta per resistere.

Dobbiamo cercare le/i nostri/e kolliris (dottori/esse) e produrre con loro rimedi non farmaceutici, testare con i nostri corpi ed esplorare ciò che ci fa sentire meglio.

Abbiamo bisogno di foglie di coca per resistere alla fame e farine di cañahua, amaranto, zuppa di quinoa. Tutte quelle cose che ci hanno insegnato a disprezzare.

Che la morte non ci prenda raggomitolate nella paura, obbedendo a ordini idioti. Che ci prenda mentre ci baciamo, che ci prenda mentre facciamo l’amore e non la guerra.

Che ci prenda cantando e abbracciandoci, perché il contagio è imminente.

Perché il contagio è come respirare.

Non riuscire a respirare è ciò a cui il coronavirus ci condanna, più che per la malattia, per il confinamento, la proibizione e l’obbedienza.

Mi viene in mente Nosferatu che, in una scena indimenticabile, quando la morte è imminente e la peste incarnata nei ratti ha ormai invaso l’intera città, tuttx si siedono a un gran tavolo in piazza, per condividere un banchetto collettivo di resistenza.

Così ci trovi il coronavirus: pronte per il contagio.

(traduzione in italiano AkubiteA)