Una storia che non viene raccontata, perché troppo scomoda parte 2 (*)

Riceviamo e diffondiamo:

Alcuni giorni fa abbiamo raccontato la storia di un caro amico. H. è dovuto fuggire dal proprio paese e se ci dovesse tornare, verrebbe imprigionato e subirebbe torture e altre vessazioni.
Appena arrivato in Svizzera, attorno al 2005, H. inoltra regolare domanda d’asilo, che viene subito respinta. H. è ritenuto irregolare in quanto non è in possesso di un documento di identità. Ma al contempo, non può neppure in nessun modo recuperare il suo passaporto.

La sua vita diventa un’odissea. Che continua ancora oggi: da oltre 10 anni H. vive tra i cosiddetti centri di accoglienza, tra i bunker e le carceri (tipo quello amministrativo per non possesso di documento). Per oltre 10 anni H. non beneficia di nessun tipo di permesso. Una deportazione forzata non è possibile, poiché non ci sono gli accordi tra la Svizzera e l’Algeria (il paese da cui proviene) . Lo Stato svizzero – rappresentato dalla SEM (Segreteria di Stato della Migrazione), dall’ufficio della migrazione del cantone Ticino e dalla polizia dei rimpatri – tenta a più riprese e con diversi metodi di imporgli un rimpatrio volontario. Detto altrimenti, H. continua a subire pressioni psicologiche affinché ceda alla richiesta di rimpatrio (il cosiddetto “rimpatrio volontario”), in quanto persona indesiderata. Ad esempio, in numerose occasioni, H. viene portato dalle guardie di confine in Italia, per essere allontanato dalla Svizzera. Una di queste viene pure picchiato, subendo un grave danno alla dentatura, ancora oggi non risolto.

Sviluppa molte amicizie e si lega sentimentalmente a una ragazza svizzera con la quale ha un figlio. L’obiettivo di sposarsi e di vivere insieme, gli viene però brutalmente negato. Così come la possibilità di lavorare per poter auto sostenersi. Non potendo lavorare i debiti verso lo Stato aumentano anno dopo anno.

Aver vissuto in prima persona il razzismo lo ha portato ad essere una persona attiva in favore dei diritti dei migranti, della libertà di movimento e per la chiusura del bunker di Camorino. Chi fa sentire la propria voce però, chi lotta e mette in discussione questo sistema migratorio, si sa, non è ben accetto in questo cantone. La risposta non tarda infatti ad arrivare: le autorità, la SEM, l’ufficio della migrazione e la Croce Rossa, si rendono ripetutamente protagoniste di pressioni, ricatti, punizioni e vessazioni. Non solo verso di lui ma anche contro le varie altre persone che vivono nel bunker di Camorino e hanno deciso di non stare più zitte denunciando le condizioni indegne che vivono all’interno del bunker.

A metà gennaio di quest’anno, H. viene arrestato dalla polizia in casa della sua compagna. Vari agenti si presentano a casa e con fare intimidatorio se lo portano via. La motivazione? Una sua, supposta, assenza prolungata dal bunker. Viene portato al carcere la Farera di Lugano, dove scopre invece che la reale intenzione del fermo era quella di convincerlo a recarsi spontaneamente all’ambasciata algerina per avviare una procedura di verifica nell’ottica di un rimpatrio “volontario”. Nell’intenso interrogatorio subito, il punto centrale sono le ripetute e insistenti domande riguardo al suo attivismo e ai gruppi solidali. Procedura per niente conforme: informazioni tardive, negazione dell’unica telefonata all’entrata in carcere e negazione del colloquio con l’avvocato. Una chiara provocazione e un’evidente intimidazione verso una persona scomoda la cui unica colpa è quello di far sentire la propria voce.

Nonostante le forti pressioni H. si oppone al rimpatrio “volontario” forzato. E dopo 72 ore e un presidio solidale sotto il carcere, nel quale tuttx i partecipanti vengono identificatx dal sopraggiungere di undici (11!) pattuglie, viene scarcerato. Il Servizio rimpatri della Polizia Cantonale, su ordine dell’Ufficio della Migrazione, gli impone però delle pesanti misure restrittive: per tre mesi non può uscire da Camorino e deve firmare presso la centrale di polizia 3 volte a settimana.

Già di per sé misure inaccettabili e del tutto inconsuete, sennonché, lo stesso giorno del rilascio, poche ore dopo, mentre stava rientrando al bunker di Camorino dove aveva l’obbligo d’arrivo per le 18.00, H. viene fermato e controllato da due poliziotti e una guardia di confine che lo ri-perquisiscono, lo rimettono in una situazione di tensione e gli ripetono insistenti domande sulla sua presunta partecipazione ai gruppi solidali (Collettivo R-Esistiamo ecc.), facendogli “chiaramente” perdere il treno e causandogli “l’inevitabile” ritardo al bunker. Ci sembra evidente la chiara volontà di colpire l’anello più debole, di voler spegnere la determinazione delle persone apparentemente più indifese e senza diritti. Una chiara volontà di spezzare la solidarietà e di smorzare le proteste contro questo sistema migratorio razzista e indegno.

Pratiche sicuramente non nuove e che non ci sorprendono più di quel tanto ma che, nel nuovo dispositivo di polizia e di sicurezza imposto dal consigliere di stato Norman Gobbi – le cui tendenze oscure ed estreme sono lì da vedere – stanno purtroppo sempre più diventando un meccanismo ben oliato, banalizzato e infine accettato.

Ma non permetterlo deve trasformarsi in urgenti e imprescindibili gesti d’umanità e di dignità ai quali non possiamo più sottrarci. Basta con l’accanimento contro le persone migranti, considerate senza diritti. Chiusura del bunker di Camorino, subito. Libertà per H. e per tutti i rinchiusi del bunker di Camorino e ovunque. Basta con questo stato di polizia e con le imposizioni razziste e totalitarie del tenente colonnello Norman “braccia rubate all’agricoltura” Gobbi.

Collettivo R-Esistiamo e alcunx Solidalx

(*) prima parte: https://frecciaspezzata.noblogs.org/post/2019/01/16/una-storia-che-non-vieneraccontata-perche-troppo-scomoda/