Stavamo per fare la rivoluzione femminista… e poi è arrivato il virus

Di Paul B. Preciado

Trad. it. a cura del collettivo universitario transfemminista La MALA educación, con la collaborazione di Caterina Prever e Camilla Marchisotti.

Versione originale apparsa su Libération il 27/04/2020.

 

 

 

Illustrazione di Benjamin Tejero.

Soltanto quaranta giorni fa, eravamo a un passo da un’insurrezione transfemminista e decoloniale, che è stata bruscamente interrotta dalla crisi del Covid-19. Il mondo capitalista si è fermato, lasciandoci un’incredibile opportunità di metamorfosi politica e sociale, così com’è concepita dallo sciamanesimo amerindo.

Non è facile dire come tutto questo sia cominciato, stabilire l’inizio della rivoluzione: dopo il primo hashtag #Metoo, o quando un centinaio di sex workers hanno occupato la chiesa di Saint-Nazier a Lione nel 1975, o ancora nel momento in cui la femminista nera Sojourner Truth si è alzata alla convention di donne bianche a Akron (Ohio) nel 1851 facendo risuonare il suo clamoroso “Non sono forse anche io una donna?”, difendendo per la prima volta nella storia la libertà e il diritto di voto delle donne razzializzate. 

Forse potrebbe essere cominciato tutto un po’ prima, o forse un po’ dopo. Dipende da come vedete le cose, se da un punto di vista individuale o cosmico, nazionale o planetario, e se vi sentite o meno parte integrante di una storia di resistenza che vi precede e vi segue. Non è facile dire esattamente come inizi un processo di emancipazione collettiva. Ma è possibile sentire la vibrazione che esso produce nei corpi che attraversa. Non è possibile neanche riassumerlo in un solo racconto. La peculiarità dei movimenti ecologisti, transfemministi e antirazzisti è la moltiplicazione delle voci, l’articolazione di serie eterogenee, la pluralità delle lingue.

E con tutta questa energia di resistenza e di lotta accumulata, in Francia, nel cuore del più vecchio e stantio degli imperi patriarco-coloniali, noi eravamo, appena quaranta giorni fa, sul punto di dare vita ad un nuovo ciclo rivoluzionario transfemminista e decoloniale. Soltanto due decenni fa, i guru della sinistra radicale della rivista Tiqqun* sostenevano che “la ragazza”  rappresentasse la figura centrale dell’addomesticamento consumista perpetrato dal  capitalismo contemporaneo e, al contempo, il corpo del cittadino modello che incarnava al meglio la nuova fisionomia del capitalismo neoliberale. Tra le ragazze, Tiqqun includeva la lesbica consumatrice e il frocio razzializzato e scansafatiche della periferia  (come immaginarlo senza ricadere nel cliché omofobo e razzista!). Hanno immaginato “la ragazza” come il prodotto di un’equazione tra tassi elevati di oppressione e un forte grado di sottomissione compiacente che produceva inevitabilmente un minimo di coscienza politica. I nostri amici del Tiqqun non avevano previsto che sarebbero state loro, le ragazze, le frocie, le trans e i corpi razzializzati delle banlieue a condurre la prossima rivoluzione.

Un giorno, senza avvertire i guru della sinistra, i patriarchi o i padroni, le ragazze violentate hanno cominciato a tirar fuori i propri aggressori dall’armadio degli abusi sessuali. C’erano arcivescovi e padri di famiglia, insegnanti e capi d’azienda, medici e allenatori, registi e fotografi. Al tempo stesso, i corpi oggetto di violenze razziali, sessuali e di genere si sono sollevati ovunque: i movimenti trans, lesbici, intersessuali, antirazzisti e di difesa delle persone con diversità cognitiva o funzionale, dei lavoratori precari razzializzati, delle/dei sex workers, dei bambini adottati… Nel mezzo di questo vortice d’insurrezione, la cerimonia dei Césars è diventata la presa – transfemminista e decoloniale – della Bastiglia televisiva. In primo piano Aissa Maiga denuncia il razzismo istituzionalizzato del cinema e, nel momento in cui consegnano il César ad un Polanski assente (lo stupratore non è mai presente, lo stupratore non ha un corpo), Adèle Haenel si alza e gira le spalle ai patriarchi del cinema. Due giorni dopo, la subcomandante King Kong si unisce ad Aissa Maiga e Adèle Haenel e, denunciando la complicità delle riforme neoliberiste di Macron con le politiche di oppressione sessuale, sessuale e razziale, decreta uno sciopero generale delle minoranze assoggettate: “A questo punto, ci alziamo e ce ne andiamo”.

E ci siamo alzate e ce ne siamo andate in migliaia verso la manifestazione dell’8 marzo. Siamo scese per le strade di Parigi e la notte è diventata un’assemblea di tecnostreghe inseguite dalla polizia. Ma né la polizia né la pioggia sono riuscite a rovinare l’insurrezione. Mai visto un corteo così bello: nonne e nipoti, frocie ed etero dissidenti, lesbiche e trans, Afro-Europee e bianche, sedie a rotelle e mani parlanti, butch e trans, migranti e proletari. Non si parlava più di andare o di non andare a vedere i film insignificanti di Polanski, si parlava di fare la rivoluzione. 

Già, anche se forse non lo sapete, eravamo ad un passo da un’insurrezione transfemminista decoloniale, avevamo riunito i nostri commandos e, come dicono gli zapatisti, avevamo “organizzato la nostra rabbia” . Ma tutto questo è successo qualche giorno prima del Covid-19, prima che fossimo obbligati ad isolarci nelle nostre case, prima che i nostri corpi fossero oggettivati come degli organismi vettori di trasmissione e di contagio, prima che le nostre strategie di lotta fossero de-collettivizzate e le nostre voci frammentate. 

Se il capitalismo mondiale patriarco-coloniale avesse potuto organizzare una strategia trasversale, da Hong Kong a Barcellona, passando per Varsavia, per dissolvere i movimenti dissidenti, non avrebbe potuto trovare una formula migliore di quella imposta dal virus, con la quarantena, i gesti di prevenzione e la nuova tracciabilità digitale dei tele-cittadini. La “shock doctrine” prevista da Naomi Klein, con le sue fasi per strumentalizzare la catastrofe “naturale”, per decretare lo stato d’emergenza, per trasformare la crisi in sistema di governo, per salvare prima di tutto e sempre le banche e le multinazionali mentre la gente crepa… si dispiega progressivamente davanti ai nostri occhi.

Tutto questo è vero, ma affermarlo senza considerare la possibilità di una resistenza altrettanto strategica, senza tenere in conto l’impatto che la crisi del Covid-19 ha sulla coscienza individuale e collettiva, significa anche naturalizzare l’oppressione, darla per assunta, firmare un assegno in bianco al capitalismo neoliberista per l’apocalisse. 

Cosa possiamo imparare sulla gestione neoliberista del Covid-19 quando la analizziamo da una prospettiva transfemminista decoloniale? È proprio in momenti come questo che bisogna, per dirlo con le parole della politologa femminista decoloniale Françoise Vergès, attivare il pensiero utopico come energia e come forza di ribellione, come sogno emancipatore e come gesto di rottura. Bisogna riconoscere che la gestione della crisi del Covid-19 ha generato non soltanto uno stato d’eccezione politico o un’ irregimentazione igienica del corpo sociale, ma anche quello che potremmo chiamare, seguendo gli psicanalisti Félix Guattari e Suely Rolnik, uno stato d’eccezione micropolitico, una crisi dell’infrastruttura della coscienza, della percezione, del senso e del significato. 

E questa rottura micropolitica è la nostra unica possibilità.

Fermate il mondo… voglio scendere

Tutte le culture, in diverse epoche della storia, hanno inventato dei processi di quarantena, di digiuno, di rottura dei ritmi alimentari, sessuali e produttivi della vita. Queste rotture funzionano come delle tecniche di modificazione della soggettività, attivando un processo di stravolgimento della percezione e dei sensi che può generare, in fin dei conti, una “metamorfosi”, un divenire altro. Alcune lingue dello sciamanesimo amerindo chiamano questo processo “fermare il mondo”. Ed è letteralmente quello che è successo con la crisi del Covid-19. Il mondo capitalista si è fermato. 

Analizzando la relazione strutturale tra l’accelerazione ed il capitalismo, il sociologo tedesco Hartmut Rosa ha descritto la crisi del Covid-19 come l’esperienza collettiva più importante del secolo, perché mostra che possiamo, grazie ad un insieme di decisioni politiche coordinate, fermare l’accelerazione capitalista. E questo rallentamento improvviso non ha soltanto un impatto economico, ma è capace anche di produrre delle altre forme di soggettivazione. 

Se osserviamo, insieme all’antropologo brasiliano Eduardo Viveiros de Castro, i diversi riti sciamanici delle società amerinde per “fermare il mondo”, si potrebbe dire che la maggior parte di essi comportano almeno tre fasi. 

Nella prima, il soggetto viene messo a confronto con la propria condizione mortale; nella seconda, egli vede la sua posizione all’interno della catena alimentare e percepisce i legami energetici che uniscono tutto il vivente, del quale anch’egli fa parte; nel terzo e ultimo livello, prima della metamorfosi, il soggetto modifica radicalmente il proprio desiderio, cosa che gli permetterà forse di diventare altro. 

Non parlo qui di un’esperienza religiosa, perché non faccio riferimento a nessun sapere teologico o trascendente. Anzi, il contrario. Ma sarebbe possibile comprendere i cambiamenti sociali e politici che la crisi del Covid-19 ha generato come una sorta di gigantesco rituale tecno-sciamanico per “fermare il mondo”, capace di introdurre delle modificazioni significative nelle nostre tecnologie della coscienza. Le tre tappe dello sciamanesimo tupi [relativo alla popolazione indigena dei Tupi del Brasile, ndr] potrebbero funzionare, a livello mondiale, come preludio ad una metamorfosi politica della coscienza per un cambiamento di paradigma planetario. 

  1. Disorientamento, finitezza e morte: necropolitica nell’economia neoliberista

Come ha messo in luce la femminista boliviana Maria Galindo, la peculiarità di questa epidemia non dipende dal suo tasso di mortalità elevato, ma piuttosto dal fatto che minacci i corpi sovrani del Nord capitalista mondializzato: gli uomini bianchi europei e nordamericani ultracinquantenni. Negli anni 80, quando l’aids ha scosso il mondo, nessun uomo politico ha mosso un dito a livello istituzionale, perché considerava che quelli che stavano morendo (omosessuali, drogati, Haitiani, Africani, sex workers, trans…) fossero meglio morti che vivi. Nessuna misura preventiva o curativa è stata applicata in quel momento: hanno piuttosto dispiegato delle tecniche di stigmatizzazione, di esclusione e di morte. Questo vale anche oggi, con il virus Ebola, la tubercolosi, la febbre tropicale o l’aids che seminano morte nei paesi del Sud, a causa di sistemi sanitari inesistenti o indeboliti dalle politiche neocoloniali, dal debito e dall’austerità. Ma oggi, e per la prima volta dalla scoperta della penicillina, il Covid-19 ha posto le opulente società del Nord e i vecchi imperi coloniali europei di fronte alla morte in maniera generalizzata. Nonostante si appropri del 90% delle ricchezze mondiali, il corpo sovrano del capitalismo patriarco-coloniale del Nord è stato costretto a confrontarsi con la sua condizione vulnerabile e mortale. Non possono salvarlo dal virus né le attività finanziarie né le riserve di capitale. La crisi del Covid-19 è crisi della sovranità del corpo bianco mascolino ed eterosessuale del capitalismo patriarco-coloniale. Ciò vale anche per tutti quelli che, a partire da altri posizionamenti dei corpi e delle identità, condividono in qualche modo i privilegi sovrani del Nord. Le file di cadaveri nei sacchi di plastica e le fosse comuni di Hart Island, nello Stato di NY, così come, ovunque  nelle grandi città ricche, le cremazioni senza possibilità di rito funebre o di lutto, hanno brutalmente collocato il corpo sovrano delle società capitaliste e patriarco-coloniali del Nord in quella stessa situazione in cui i corpi dei rifugiati, dei migranti, dei lavoratori poveri, femminizzati e razzializzati del Nord e del Sud colonizzato e globale sono stati e continuano ad essere. Si tratta della prima lezione del rituale tecno-sciamanico mondiale: non sarà possibile rendere le lotte trasversali se prima non avremo condiviso anche le esperienze di espropriazione, di oppressione e di morte che il capitalismo genera. 

  1. La metafisica cannibale del capitalismo patriarco-coloniale 

Nei rituali sciamanici di metamorfosi attraverso l’utilizzo di piante psicotrope e di altre tecniche corporali (digiuno, danze, sacrifici, tatuaggi, modificazioni corporali, ripetizione del linguaggio) all’inizio della metamorfosi l’iniziato deve prendere coscienza della sua posizione nella catena di produzione, riproduzione e consumazione dell’energia vitale. Quello che gli antropologi hanno chiamato “vedere la catena alimentare”. 

L’iniziato comprende, per esempio, che estrae vita ed energia dalle piante e dagli animali (o dagli umani nel caso delle culture cannibali) che lui uccide per nutrirsi o per altri scopi. In alcune società (tupi), l’obiettivo è comprendere la differenza tra “uccidere per nutrirsi” o “uccidere per accumulare potere”. Per completare la metamorfosi, è necessario che la pulsione legata all’accumulazione di potere – che si è impossessata della totalità del desiderio – sia progressivamente percepita come accumulazione di morte, come un veleno la cui riserva minaccia l’equilibrio della vita. La crisi del Covid-19, amplificando le forme di oppressione e mettendo a nudo le disfunzionalità istituzionali delle democrazie neoliberali, ha reso visibile la catena alimentare del capitalismo patriarco-coloniale. La cartografia della diffusione del virus e gli effetti esponenziali che ha provocato sull’economia mondiale ci hanno permesso di “vedere” il legame tra la deforestazione e la contaminazione virale, tra l’industria agroalimentare e l’industria farmaceutica, tra lo sfruttamento e lo spossessamento della massa di lavoratori poveri del Sud mondiale e dei corpi razzializzati del Nord, tra la politica dei trasporti e le economie petrolifere, tra telelavoro e pornografia sul web. Wuhan è uno dei luoghi di produzione chiave dell’industria automobilistica mondiale, dove vengono fabbricati i singoli pezzi della Peugeot e della Citroen. La Cina, l’India e il Pakistan sono le fabbriche tessili del mondo; l’America del Sud e l’Africa restano i principali centri di estrazione delle materie prime e dei metalli necessari alla fabbricazione delle tecnologie più avanzate al mondo. Storicamente, per citare lo scrittore Eduardo Galeano, nella periferia del capitalismo mondiale “l’oro si trasforma in ferraglia e gli alimenti si convertono in veleno”. Oggi, i flussi del capitalismo sono saturi: l’immondizia riempie le spiagge del Nord e il veleno è nei nostri piatti.  La crisi ha inoltre messo in evidenza il funzionamento antropofago del capitalismo patriarco-coloniale. La modernità coloniale ha segmentato i corpi viventi in specie, classi, nazionalità, razze, sessi, sessualità, handicap…. In questa economia-mondo, alcuni sono costretti in ruoli naturalizzati di prede, altri di predatori. La violenza sessuale e razziale sta cambiando con il virus. La mascherina e la tuta igienica mascherano la differenza sociale tra uomini e donne, tra neri e bianchi. Ma sotto la tuta e dietro la mascherina, le differenze politiche persistono e si accentuano. Da un lato, c’è l’isolamento sociale dei bianchi agiati; dall’altro, la contaminazione forzata dei lavoratori poveri, femminilizzati e razzializzati. Le istituzioni democratiche deputate a proteggere i più vulnerabili (bambini, malati, anziani, persone con bisogni funzionali o psichici specifici…) rivelano la loro connivenza con le strutture del capitalismo patriarco-coloniale e si comportano come lo Stato ha sempre fatto nei contesti totalitari e coloniali: abbandonando, estorcendo, opprimendo, mentendo, somministrando punizioni e morte. Le istituzioni, già indebolite dalla privatizzazione neoliberista, mutano e si fagocitano tra di loro: la guerra di cui parlano i governi è quella che le istituzioni conducono contro i loro cittadini. Gli ospedali si sono trasformati in trincee, le case di riposo in obitori, i palazzetti dello sport in centri di detenzione per senzatetto, le prigioni in muri da plotone di esecuzione virale.

La guerra è anche dentro la casa. Lo spazio domestico, il nucleo del ripiegamento immunitario, si rivela non solamente come un’isola di protezione, ma anche come un concentrato di tutte le forme di oppressione e violenza eteropatriarcale. Durante la quarantena, i casi di abuso e di violenza sessuale si moltiplicano. Il telelavoro regna. Nessuno riconosce il lavoro di cura e riproduzione, affettivo e sessuale, in quanto lavoro. Alla precarietà di classe, razza, sesso e sessualità si aggiungono ormai nuove linee di oppressione: gli esposti e i protetti, chi sanifica e chi viene sanificato, chi è sottoposto al rischio di contagio e chi può preservare la sua  immunità, i senzatetto e chi può vivere l’isolamento nella propria casa, chi cura e chi viene curato. La crisi del Covid-19 e la sua capacità di mettere in risalto la struttura intrinsecamente connessa di tutte le forme di oppressione potrà aiutarci a disegnare i contorni di un nuovo soggetto rivoluzionario planetario per il quale le forme di oppressione fondate sulla razza, il sesso, la classe o l’handicap non si escludono le une con le altre, ma si intersecano e si moltiplicano. Nel corso degli ultimi due secoli, ci sono state centinaia di lotte, ma tutte frammentate. Retrospettivamente, potremmo dire che le politiche emancipazioniste si sono caratterizzate per il fatto di essere strutturare secondo la logica dell’identità. I principali movimenti per l’allargamento dell’orizzonte democratico si sono costituiti attorno a posizione binarie che hanno finito per rinaturalizzare i soggetti politici della lotta e per creare delle esclusioni: il femminismo per le donne eterosessuali e bianche – per non dire omofobe, TERF e razziste; le politiche LGBT per gli omosessuali, bisessuali o transessuali, soprattutto bianchi e agiati; le politiche antirazziste per le persone razzializzate e per gli altri corpi  del sottoproletariato somatopolitico del mondo. D’altra parte, fino ad oggi, le lotte sono state strutturate in funzione di tensioni moderne tra riconoscimento e giustizia, tra libertà e uguaglianza, tra natura e cultura. Abbiamo visto crescere lo scontro tra politiche di classe e politiche di genere, e la liberazione femminista è stata strumentalizzata per legittimare delle politiche razziste e anti migratorie. 

Cercando di superare le opposizioni tradizionali e riduttive tra movimento operaio e femminista, tra decolonizzazione ed ecologismo, diverse voci di teoriche femministe quali Silvia Federici, Francoise Vergès e Donna Haraway ci invitano a immaginare la classe operaia contemporanea come un insieme complesso di corpi minerali, vegetali, animali, femminilizzati e razzializzati che svolgono il lavoro devalorizzato\non riconosciuto di riproduzione energetica, sessuale, affettiva e sociale della tecno-vita sul pianeta Terra. Questa prospettiva transecofemminista e decoloniale implica allo stesso tempo una modifica della rappresentazione del soggetto politico e della sua sovranità. La rivoluzione che verrà non è una negoziazione di quote di rappresentanza identitaria o di una riorganizzazione dei gradi di oppressione. La rivoluzione che verrà riconosce l’emancipazione dei corpi viventi vulnerabili al centro del processo di produzione e riproduzione politica. Naturalizzando la sfera della riproduzione sociale e sessuale, le filosofie politiche del marxismo e del liberalismo hanno messo l’accento sul controllo dei mezzi di produzione. Solo i linguaggi politici del fascismo hanno fatto della cattura violenta dei mezzi di riproduzione della vita (della definizione della mascolinità e della femminilità, della famiglia, della “purezza della razza”) il centro dei loro discorsi e della loro azione politica. Oggi siamo di fronte, dagli Stati Uniti di Trump al Brasile di Bolsonaro, passando per la Polonia di Andrzej Duda e la Turchia di Erdogan, all’espansione delle forme neonazionaliste e tecnopatriarcali del totalitarismo. Ci troveremo ugualmente di fronte, molto presto e in maniera brutale, alla legalizzazione del tracciamento telefonico, all’espansione mondiale delle forme di tecnototalitarismo e di sorveglianza biodigitale.  

Davanti a queste due forme di totalitarismo, i produttivisti patriarco-coloniali, sia neoliberali che socialisti, non potranno agire come delle autentiche forze antagoniste, perché entrambe condividono lo stesso ideale di produttività e di crescita economica e postulano lo stesso corpo politico sovrano: un soggetto bianco, virile e eterosessuale. Gli uni vogliono fare marcia indietro. Gli altri vogliono accelerare. Nessuno di loro vuole cambiare. L’insegnamento più importante di questo rituale tecno-sciamanico può essere quello di “fermare il mondo”. Solo una nuova alleanza di lotte transfemministe, anticoloniali e ecologiste potrà combattere sia la privatizzazione delle istituzioni, l’economia del debito, la finanziarizzazione del valore del neoliberismo, sia i discorsi del totalitarismo neonazionalista, tecnopatriarcale, neocoloniale. Solo una rivoluzione somatopolitica trasversale sarà in grado di mettere in moto una vera alternativa.

3. Mutazione del desiderio politico e la rivoluzione

Questa terza fase è nei rituali sciamanici quella che ci permette di costruire noi stessi come un altro da noi, attivando un processo di metamorfosi che può comportare un cambiamento di nome, un dislocamento istituzionale, un esilio, una deviazione… L’ultima lezione di questa crisi del Covid-19 come rituale  tecno-sciamanico globale è che solo una mutazione del desiderio politico può mettere in moto la transizione epistemologica e sociale in grado di soppiantare il regime capitalista patriarco-coloniale. L’attivista afro-americana Angela Davis ha affermato che durante gli anni della segregazione razziale negli Stati Uniti, la parte più difficile era immaginare che le cose potessero essere diverse da quelle che erano. Il problema fondamentale che ci troviamo di fronte è che il regime capitalista patriarco-coloniale ha colonizzato la funzione del desiderio rivestendola di valori monetari, di una semiotica della violenza, di modalità di oggettivazione consumistica e di depressa sottomissione. La chiave del capitalismo patriarco-coloniale non è la produzione di plusvalore economico, ma la fabbricazione di una soggettività i cui desideri sono stati adattati al processo di produzione del capitale e alla riproduzione eterosessuale e coloniale della vita. La violenza opera fabbricando una soggettività normativa che prende possesso del corpo e della coscienza fino a quando quest’ultimi accettino di “identificarsi” con il processo stesso di estrazione della propria vita. La prima cosa che il potere estrae, modifica e distrugge è la nostra capacità di desiderare il cambiamento. Fino ad ora, l’intera struttura capitalista patriarco-coloniale si è basata su un’estetica egemonica che limitava il campo della percezione, spegneva la sensibilità e ingabbiava il desiderio. Ed è stato questo desiderio che è entrato in crisi con il ” fermarsi del mondo” che la gestione del virus ha generato.

Negli anni ’70, Mafalda, un’altra ragazza arrabbiata, rese popolare lo slogan “fermate il mondo, voglio scendere”. Ora il mondo si è fermato. La domanda è se questa volta vogliamo davvero scendere.

* Tiqqun è una rivista filosofica d’ispirazione anarchica e post-situazionista fondata nel 1999 da Julien Coupat, scagionato nel 2018 rispetto al sospettato coinvolgimento nel sabotaggio di una linea del treno ad alta velocità nella località di Tarnac.