“On fait notre boulot, monsieur”

Apartheid, definizione. “Politica estremistica di discriminazione razziale perseguita dalle minoranze bianche nella Repubblica Sudafricana e attuata con ogni mezzo, anche violento, ai danni della libertà e dei diritti civili degli indigeni neri (formalmente abolito nel 1991)”.

Mercoledì pomeriggio. Luglio. Di nuovo l’afa che s’intrufola nelle menti. Montagne in vista, odori di disfatte. Nuria, pattinatrice catalana radiata dalla federazione spagnola, ipnotizza nei suoi volteggi beffardi. Il convoglio lascia Olten, puntuale. Ragazzi tatuati e riderecci caricano, ansimando, un carrello porta rifiuti adibito a contenitore per cibarie e alcolici.

 Estate, tempo di svizzeri open-air. Arriviamo ad Arth-Goldau. Nei vagoni le lingue si incrociano. Hochdeutsch, schwizerdütsch, italiano, francese. Una telefonata in arabo. Più giù una famiglia ride in spagnolo. Movenze colombiane. In quattro trincano in russo un vino bianco del mini-bar. Per la prima volta imbocco la famosa galleria. Oggi niente Valascia. Chissà come si sarebbe trovata, Nuria, lì dentro. Usciamo direttamente a Biasca, in un attimo sfila Claro, e subito s’affaccia Bellinzona: “i viaggiatori diretti a Locarno sono pregati…”. Gli intrecci di idiomi si affrettano accalorati e sorridenti verso l’uscita. In rigoroso ordine.

Da quest’anno i turisti soggiornanti in Ticino ricevono una carta che permette loro di spostarsi gratuitamente per due settimane con tutti i mezzi pubblici.

Ripartiamo. Il bigliettaio ripassa un po’ svogliato. È da Lucerna che non controlla più. Meno male – azzardo – il biglietto era valido solo fino ad Arth-Goldau…

Roberto Bolaño e la sua “Pista de hielo1” mi riportano a Nuria: “… los dìas que precedieron el hallazgo del cadàver fueron innegablemente raros, pintados por dentro y por fuera, silenciosos, como si en el fondo todos supiéramos de la imminencia de la desgracia”.

Non me ne rendo nemmeno conto. D’improvviso è un bonjour” a rimbalzare su passi inattesi. Vestiti blu, armi penzolanti lungo le cosce, gagliardetto sulla spalla destra – verde e bianco -, due donne e un uomo scrutano tra gli scompartimenti. ll loro sorriso beffardo non mi piace.

“… i giorni che precedettero il ritrovamento del cadavere furono innegabilmente rari, dipinti dentro e fuori, silenziosi…”

Non rispondo all’intromissione. Lo sguardo finto compiacente mi disturba. Che vogliono mi dico? All’improvviso Nuria, la deportista del infierno2, cade: “levantate – le dice el gordovas a agarrar frìo, poco importa si hace calor afuera”. Non faccio a tempo a pensarlo, quello che vogliono, e già l’umore cambia. Il tono assume nuovi caratteri. Le movenze si irrigidiscono. “Documents s’il vous plait”. L’idioma pronunciato si frantuma pesantemente sul panorama di montagne chiuse. Avvolte su se stesse. Tipico della rimontata.

Giusto uno scompartimento davanti al mio una donna dai tratti asiatici, la sessantina, leggendo un libro. Dall’altra parte un ragazzo, probabilmente originario dal Maghreb. Musica da telefono ad auricolari. Il silenzio si fa denso. Solo a loro viene chiesto il documento. Nessun bianco, turista, autoctono, di passaggio deve favorire le generalità.

… come se tutti, in fondo, sapessimo dell’imminenza della disgrazia”.

La donna presenta un passaporto svizzero. “– Pas de problème madame, merci”.

Il rosso s’interpone su lineamenti altri e vomita la sua legittimità ai rappresentanti dello Stato. Ringraziano e passano oltre.

Un oltre, evidentemente, meno consono.

Il passaporto francese – arrampicante su sfumature olivastre – non corrisponde all‘esigenza richiesta. Un fuori inadeguato. Piovono domande. Dove. Quando. Perché. In tre – un quarto li raggiunge – aggressivi, veloci, sudati. Piovono, piovono domande. Perché. Dove. Quando. Le risposte non soddisfano. Nervose. Sbiascicate. Impaurite. Inaspettate.

Piovono domande…

Importa davvero?

Mi stufo. M‘innervosisco. Esibisco i privilegi. Quelli di uomo, bianco, con la voce grossa e uno schwiizerpas. Intervengo. Inizio dall’italiano, la lingua delle montagne che ci circondano. Ma passo subito al francese. Se di privilegi si tratta, che meglio mi capiscano: “- in base a cosa controllate? Al colore della pelle? Dei tratti somatici? Perché nessun bianco, uomo o donna, giovane o vecchia che sia, viene controllato? Sono delle direttive generali? Controllate tutti i non bianchi? Perché?”

Parlo forte. Gli altri passeggeri non capiscono, guardano straniti. Che cazzo vuole questo? Di che s‘immischia? “- On fait juste notre boulot monsieur3“. Si gran mestiere di merda. Controllare e controllare. Perquisire e perquisire. Dopo i controlli negli aeroporti, alle stazioni, allo stadio, ai concerti, a teatro, nei musei – controlli ovunque, perquisa dopo perquisa, fouilles après fouilles – anche i flics4 potranno finalmente dire d‘aver lavorato e di avere i calli alle mani5

A proposito di lavoro: non oso immaginare le reazioni se i 34 degni lavoratori della navigazione licenziati e poi entrati in sciopero – in seguito minacciati e “consigliati” di rimettersi a lavorare dimostrando senso civico, smettendo di importare azioni di lotta della vicina penisola – fossero stati frontalieri, “stranieri”, “altri”…

Ma è la curiosità ad uccidere il gatto. Il mec viene circondato e portato tra i due vagoni. Lugano si avvicina, le porte si chiudono, l‘orizzonte si apre ma gli sgherri chiudono ogni possibile via d‘uscita. “Monsieur après, si vous arretez pas, on vient sur vous6“. Aspetterò invano. Intanto il passaporto transalpino è sequestrato e tra una chiusura e un’apertura di porta, riesco a captare: “je ne sais pas”, “vacances”, “casinò”, “famille” …

Nel mentre penso. Perché un treno proveniente da nord verso sud e solo diretto a Lugano (non a Chiasso!) viene setacciato da 5 guardie di confine romande che controllano unicamente passeggeri non bianchi? Non sarebbe questo – eventualmente – un compito di polizia? Nell’illegalità umana è considerata legale tale prassi? Che cercano di fatto?

Domande, evidentemente, retoriche.

Chiunque abbia preso un Tilo o un diretto da Milano verso il Ticino in questi ultimi due anni, non può dire che non sapeva. Diakite Yoursouf, vent‘anni, veniva dal Mali. Il 27 febbraio è rimasto folgorato alla stazione di Balerna. Lo immagino arrampicare sul vagone per raggiungerne il tetto, per compiere il passaggio. Come fanno i migranti centroamericani alla frontiera tra Guatemala e Messico. La bestia si chiama quel treno. Di fretta, senza voltarsi, con la tensione che ti si sguarcia in gola, le gambe che tremano, la paura che paralizza. Sudi gocce di speranza nel grigio mattutino di fine inverno.

Immaginare di vivere quella libertà necessaria. Raccontarla per non dimenticarne le facce, i volti, i nomi di chi nella traversata è mancato. Nominare la tragedia per non dimenticare le responsabilità. Per ricordarsi che lo Stato svizzero è assassino. Il governo ticinese è assassino. L‘apparato di sicurezza di polizia e di guardie di frontiera è assassino. Che chi fomenta, invòca, accetta, legittima, dispone, giustifica tale dispositivo di respingimento è responsabile di questa morte. Di quelle morti.

Perché a contare oggi è il colore della tua pelle.

L’elemento di disturbo. Di controllo. Di separazione. Di rottura.

Di privilegio.

Alla stazione di Chiasso, entrando in Svizzera, esiste una vera e propria barriera che divide in due gli esseri umani. Chi è bianco e chi non lo è. Se sei bianco passi, no problem, ricevi pure un sorriso o un incoraggiamento a non intralciare il boulot delle forze dell’ordine. Dall’altra parte tutte le altre sfumature di colore. Controllate, perquisite, portate nei centri di registrazione, respinte. Con le buone, con le cattive, con gentilezza, con dispiacere, con rozzezza, con insulti, con…

No, non puoi dire che non sapevi.

Arriviamo a Lugano. Il ragazzo, nell’indifferenza generale e negli sguardi freddi, viene imbarcato verso il posto di controllo dietro la biglietteria principale. Il campanello sulla porta indica “posto di controllo di polizia e delle guardie di confine del Canton Ticino e della città di Lugano7.


Quando, innumerevole volte, a Chiasso, a Losone, sul Lucomagno8 ho interpellato le guardie di confine, gli agenti di polizia, la sicurezza privata, i controllori dei treni su tali pratiche, tacciandoli di discriminazione, non sono stati in grado di rispondere
. “On fait notre boulot monsieur”. “Sory aber wir machen unsere Arbeit”. “Facciamo il nostro lavoro, mi spiace”. “A sem dré a lavorà, romp mia i coioni e circolare prego”.

Il Sudafrica di anni fa, la Palestina, oggi come ieri, furono, sono definiti come stati dove vige l’apartheid. La discriminazione razziale in base ai tratti somatici o al colore della pelle. In francese oggi si direbbe contrôle au faciès, ovvero “una procedura di controllo d’identità basata sull’apparenza della persona controllata”. Una procedura che, negli ultimi anni, ha causato, in Francia come negli Stati Uniti, un numero considerevole di persone non bianche ammazzate dalla polizia.

Ho aspettato più di mezz’ora fuori da quegli uffici. Volevo capire. Sapere cosa succedeva in quelle stanzette, coperte dall‘anonimato. Ma sono stato avvicinato da altre guardie di confine che, nella lingua che meglio conosco, mi hanno chiesto cosa desiderassi e invitato ad allontanarmi. Del ragazzo con la musica nel telefono nessuna traccia. Nessuna notizia.

Stiamo facendo dei controlli. Non si sa mai che è un terrorista. Ci dovrebbe ringraziare piuttosto. E comunque prego circolare, qui non è posto dove discutere.”

(“On fait juste notre boulot monsieur”.)

Il cantone del Ticino è diventato un territorio dove si pratica la discriminazione razziale come norma. Come pratica ripetuta e legittimata dello Stato, dove le persone sono divise e controllate in base al colore della pelle. E quello che per alcuni/e fortunati/e è da sempre un territorio da scoprire e da vivere per le sue bellezze, per tanti/e altri/e diventa un territorio da incubo dove essere costantemente e quotidianamente umiliato, offeso, respinto, vittimizzato, sbeffeggiato, controllato.

Il lungo cappio della storia delle colonizzazioni che mai s‘arresta.

Cambiare questa tendenza vuol dire non accettare queste pratiche. Vuol dire denunciarle, opporsi, mettersi in gioco e interporsi. Vuol dire lottare contro le frontiere e rifiutarle come mezzo di separazione, di controllo e d‘oppressione. Cambiare questa tendenza significa rimettere al centro la questione razzista. Significa assumere i privilegi di un mondo occidentale, bianco, maschio, dominante – dove sempre esistono gli sfruttati e gli sfruttatori, quelli in alto e quelli in basso – ma dove i tratti somatici e la provenienza rompono ogni certezza passata. Cambiare queste tendenze è definire da che parte stiamo. Non solo una questione di solidarietà e di dignità umana ma una riflessione profonda sui ruoli, sulle responsabilità, sulle mancanze che pure noi tutti/e in quanto esseri in lotta e solidali ci portiamo appresso. Perché, volenti o nolenti, comunque coinvolti/e, testimoni coscienti dello stato delle cose e dell‘imminenza della disgrazia.

No, non tutti, in Ticino, viaggiano gratis.

*

afroditea

Chiasso, zona di confine, estate 2017

1 Citazioni tratte da Roberto Bolaño, La pista de hielo (trad italiano: La pista di ghiaccio), Editorial Anagrama.

2 (trad: la sportiva del inferno. “Alzati – le dice il ciccione – prenderai freddo anche se fuori fa caldo”

3 Facciamo semplicemente il nostro lavoro, signore

4 Sbirri

5 Cito a memoria da una striscia tratta da un conosciuto vignettista francese del quale non ricordo purtroppo più il nome.

6 Signore se non la smette il prossimo sarà lei.

7 In un simile vecchio sgabuzzino della precedente stazione, qualche anno fa, un ragazzo, venditore di rose pakistano, ne aveva fatto le spese rimediandosi un sacco di botte, un timpano spaccato e il furto dei soldi. Ci fu una denuncia contro le forze dell‘ordine e qualche articolo di giornale, ma il procuratore generale, il socialista John Noseda, ha da poco emesso un non luogo a procedere senza nemmeno convocare gli agenti in questione. Il municipio di Lugano e il sindaco leghista Marco Borradori sono scesi in campo assumendo le difese della polizia in un lungo “memoire” di difesa denso di luoghi comuni e di disprezzo delle origini e della cultura del denunciante. „Quel giorno nessuna pattuglia passava da quelle parti“ secondo il referto di polizia e poi “si sa in quei paesi son bravi a inventarsi tutto, a mentire per ottenere quello che vogliono … i nostri soldi, le nostre donne, i nostri privilegi…”

8 Mi riferisco al centro di registrazione di Losone e all’esperienza del bunker del Lucomagno di alcuni anni fa. Più info…